Famiglia

Il gap che ci divora

di Benedetta Verrini

Non riesco a stancarmi di parlare di gap occupazionale di genere. Non ci riesco perché trovo che molti problemi sociali comincino da questo: da una donna, una mamma che deve rinunciare al suo lavoro. E da questo vengono meno altre cose fondamentali. L’indipendenza economica. L’autonomia personale in famiglia. Le scelte di consumo. Il diritto di fare altri figli, se si desiderano.

Questa settimana ho avuto l’occasione di moderare il convegno annuale della Consigliera di Parità della Regione Lombardia (www.consiglieradiparita.regione.lombardia.it). Il titolo dell’evento era provocatorio (“Ha ancora senso parlare di parità di genere nel mondo del lavoro?”) e suggerito dal fatto che il Jobs Act ha azzerato il Fondo nazionale per le Consigliere. Una scelta inconcepibile, visto che sono figure cardine, sul territorio, nella lotta alla discriminazione e nella promozione di azioni positive (in Lombardia, ad esempio, l’ufficio della Consigliera ha organizzato corsi di formazione ad hoc per i delegati sindacali e ha affrontato i temi della sicurezza in ottica di genere). Su ciascun territorio, come pubblici ufficiali, queste figure ascoltano la voce delle donne e aiutano le lavoratrici a risolvere i problemi con l’azienda, spesso senza dover arrivare a una causa.

Quali sono i casi più numerosi di discriminazione? Io pensavo il mobbing e le molestie sessuali. Certo, ci sono anche quelli, ma i più numerosi sono legati alla maternità. Delle decine di situazioni (individuali e collettive) gestite dalla Consigliera lombarda, Carolina Pellegrini, la maggior parte riguardano la conciliazione e la gestione degli orari di lavoro, i casi di demansionamento al rientro della maternità, oppure le mancate indennità, mancata formazione, esclusione da premi di produzione e carriera durante il periodo della maternità (obbligatoria).

“E’ sconfortante constatare che la maternità, tanto difesa a parole, continui a essere considerata un lusso dalle aziende”, ha commentato la consigliera, ricordando l’altissimo tasso di abbandono del lavoro da parte delle donne italiane dopo l’arrivo del primo figlio.

Secondo i dati dell’Ispettorato interregionale del Lavoro, i lavoratori (ma in prevalenza lavoratrici) che hanno chiesto la convalida delle dimissioni (obbligatoria per tutti i genitori di bambini sotto i tre anni) nella sola Lombardia sono state 7mila negli ultimi anni. Saranno state proprio tutte così tanto serene, libere e sicure di lasciare il proprio lavoro, nel decennio economico peggiore dal Dopoguerra?

Le donne quarantenni sono le più fragili: non hanno soltanto i figli da accudire, ma di qui al 2020 dovranno sempre di più fare fronte, da sole, a familiari non autosufficienti. E sono sempre le donne ad aver pagato il tributo più alto alla crisi economica di questi anni: sono discriminate nei colloqui, faticano a convertire contratti precari in contratti a tempo indeterminato, faticano a mantenere il posto di lavoro, sono le prime a essere messe in mobilità o licenziate, anche se è contro la legge. In più: a fare una causa di lavoro, ha ricordato la consulente legale della Consigliera, oggi si rischia di dover pagare anche le spese legali della controparte. E’ evidente che molte rinunciano a far valere i propri diritti, non possono correre il rischio.

Che cosa difficile andare all’ufficio personale e dire che si aspetta un figlio. Per molte è l’inizio di un percorso a ostacoli, comincia con la freddezza delle domande su quanto tempo ti assenterai e “come farai a organizzarti”. Eppure quando è un uomo ad annunciare che diventerà padre, si stappa lo spumante. Graziella Carneri, che è segretario della CGIL Lombardia, ha detto una cosa che mi ha colpita molto: “La nuova battaglia per le donne oggi è quella di avere i figli che desiderano. E dovrebbe essere anche la battaglia delle aziende. Perché l’impatto che l’economia subirà dalla mancanza di giovani, nei prossimi anni, sarà drammatico”.

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