Famiglia

Il G8 visto da un filosofo. Intervista a Sergio Givone

Il dopo Genova offre una speranza: un movimento di uomini che sanno guardare al mondo senza partire dal proprio interesse immediato.

di Redazione

Sergio Givone, filosofo, docente di Estetica all’Università di Firenze, direttore con Massimo Cacciari della rivista “Paradosso”. È uno dei pensatori più interessanti dei nostri anni. Vita Professore, al di là delle cronache nere e giudiziarie, cosa resta di Genova? Sergio Givone: Una volta tanto sono ottimista. Forse dire un soggetto nuovo è troppo, ma di segni, in questa direzione, ce ne sono. Benché ci siano due obiezioni forti. La prima è che non si può essere contro la globalizzazione di per sé perché, come dicono alcuni, si tratta di un movimento positivo. Significa abbattimento delle frontiere, apertura dei mercati, tutto ciò che incontriamo quando nasce una civiltà. Non solo: globalizzazione significa anche governo mondiale delle grandi tragedie che ci sono nel mondo. Sono due tradizioni alte, c’è dietro Kant, l’Illuminismo… Vita: E la seconda obiezione? Givone: Che il movimento, al di là delle punte violente, sembra essere composto da soggetti disparati, difficili da mettere insieme. Persone politicamente su fronti opposti: dalla destra regressiva, che difende il particulare e il localismo, fino ad una sinistra utopistica. Vita: Dunque? Givone: Nonostante queste obiezioni, credo che possiamo assistere alla nascita di qualche cosa di buono. Primo, perché la globalizzazione, come tutte le idee che hanno una storia ma che vengono strumentalizzate, è mutata di segno: da positiva è diventata negativa. Ha tutta l’aria di essere diventata un’ideologia, da quell’idea che era. Un’ideologia strumentalizzata da qualcuno. Che cos’è, come la conosciamo oggi, se non il dominio di un’economia anonima, dell’alta finanza e della politica messa al servizio di tutto ciò? L’ideologia va smascherata e combattuta. Secondo: il movimento è formato da anime le più diverse e difficili da tenere insieme, ma Genova ha fatto cagliare elementi disomogenei e li ha unificati nella coscienza comune che la globalizzazione non è quella buona cosa che si dice che sia. Vita: E cioè? Givone: Che c’è un altro modo di vedere le cose, che non sia puramente mercantile, puramente economico-finanziario. Che c’è l’uomo, c’è la salvaguardia di ciò che di umano è caro a tutti. C’è lo scandalo della povertà, contro il quale queste migliaia di giovani, di uomini e di donne – provenienti da tradizioni diverse – hanno combattuto. Tutti hanno gridato all’indegnità della vita a cui la maggioranza degli uomini è costretta. E non semplicemente perché si tratta di popoli succubi di regimi tirannici o perché non sanno lavorare e dobbiamo insegnarglielo, come è stato detto al G8, ma perché pagano per noi. Questo movimento, formato da soggetti così diversi, è stato unificato da un improvviso sentimento, forte e alto, della dignità umana. Vita: Quali possono essere gli interlocutori ? Givone: La Chiesa, innanzitutto. Sono il primo a riconoscere che spesso difende posizioni indifendibili in materia di etica sessuale e altro. Ma è vero che la Chiesa in questo, come in tanti altri casi, ha dimostrato di vedere più in là dei politici. È stata la prima. Non solo l’arcivescovo di Genova, ma anche quella che una volta si chiamava la chiesa di base. Si sono schierati, senza ambiguità, a favore di quelli che, un po’ sprezzantemente, vengono chiamati “anti-global”. Perché, se ciò significa dire no al G8 e al mercato, si rischia di fare la parte di chi difende una causa persa e anche un po’ retriva. Ma se “anti-global” vuol dire alzare lo sguardo al di là del proprio interesse immediato, dell’Occidente e della sua ricchezza, verso questo mondo disastrato; se significa rivendicare il valore della dignità umana, allora qui c’è qualcosa di molto serio. E la Chiesa lo ha intuito molto prima dei partiti politici. Sono un uomo schierato a sinistra, ma devo dire che la sinistra politica è stata troppo cauta e ambigua: si è persa in discussioni del tipo “ci andiamo, non ci andiamo, con o senza le bandiere”. Avrebbe dovuto capire cosa c’era in gioco. Vita: Quali rischi sul suo cammino? Givone: Come sempre quello stesso rischio in cui sono cadute quelle buone idee che erano il governo mondiale, l’abbattimento delle frontiere e così via: il rischio dell’ideologia. Significa farsi strumento di qualche cosa che ha ben poco a che fare con la dignità dell’uomo e che sembra piuttosto aver a che fare con la violenza, con una sorta di potere mascherato. In una parola ideologico. È una minoranza esigua, certo. Ma non possiamo dimenticare cosa una minoranza sia riuscita a fare nell’Italia degli anni ’70, travolgendo un’idea di liberazione che poteva essere di tutti. Vita: E l’abbraccio di una certa politique politicienne? Non può essere mortale? Givone: Arriva in ritardo. Oggi la politica offre il fianco a questo tipo di critica piuttosto che a quella di strumentalizzare. Il movimento è vaccinato perché ha visto che la politica ha tempi di reazione tardivi e quindi sa prendere le distanze dai tentativi strumentalizzanti. Non dalla politica buona, ovviamente. Di quella abbiamo bisogno, perché un movimento che resta tale senza diventare fatto politico manca di qualcosa di essenziale.


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