Quando ho cominciato a muovere i primi passi nel fundraising, ricordo che ad affidarsi all’agenzia per cui lavoravo ai tempi erano, in modo particolare, le grandi organizzazioni nonprofit. Non solo per via delle risorse in più da investire ma, di fatto, per una mentalità d’impresa che le contraddistingueva dalla maggior parte delle piccole, ancora ancorate a una visione più “romantica” della causa, dove il rapporto con il denaro era non solo un limite bensì quasi un insulto all’attivismo volontaristico.
A distanza di 15 anni, le cose in parte sono cambiate.
E’ certamente sempre molto diffusa l’idea che denaro e causa non vadano d’accordo ma, per fortuna, c’è più cultura in questo senso e una maggiore consapevolezza sul fatto che per fare bene le cose, il cuore va bene ma il cuore da solo non basta.
Il mercato è evoluto velocemente negli ultimi anni. Complici una crescente attenzione della stampa che nel tempo ha attenzionato il terzo settore, facendo emergere buone pratiche e cattivi usi.
Complici gli operatori del settore che hanno preteso, per certi versi, una maggiore formazione per far crescere le proprie organizzazioni in cambio del supporto il più delle volte volontario.
Complice la crisi globale che ha investito il privato sociale di maggiori responsabilità e, dunque, ha favorito la necessità di creare maggiori competenze.
Così, di fatto, la richiesta di professionalizzazione ha subìto un’impennata e, con essa, è cresciuta l’offerta formativa a più livelli, inclusa quella più propriamente legata al reperimento dei fondi.
La maggiore professionalizzazione ha senza dubbio accresciuto le abilità di chi sapeva e, allo stesso tempo, ha provocato (fortunatamente, direi) il proliferare della ricchezza nell’offerta sociale, con la comparsa sulla scena di entità diverse, alcune delle quali si sono affermate contribuendo ad arricchire il terzo settore italiano in termini di valore. Insieme a queste, è cresciuto il numero di persone impegnate, a vario titolo, nel marketing, nella comunicazione, nella raccolta fondi.
Diversificazione è sinonimo di ricchezza, il più delle volte, ma tale ricchezza va incanalata perché allo stesso tempo accresce la difficoltà nel comprendere chi fa bene e chi meno.
Formazione e diversificazione hanno favorito l’allargamento della forbice – e dei risultati – tra chi sa e si forma e chi rimane ancorato a una visione che più sopra ho definito “romantica” del nonprofit e di coloro che si ostinano, seppur in buona fede, a non voler accettare il cambiamento di un mercato che richiede molto di più del buon cuore per starci e supporre di lavorare negli anni a venire.
Ci vogliono tempo, budget, fiducia e lavoro trasversale. Questi 4 sono aspetti che meritano un capitolo a parte. Ne parleremo ancora.
Così, se fino a una decina di anni fa i board potevano ancora scegliere se fare della raccolta fondi un’attività strutturata o meno, ora non è più una scelta opzionabile.
Il fundraising è oggi protagonista. Tanto vale farlo bene.
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