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Il fundraising esca dal seminato
Dopo la pubblicazione dell'Italy Giving Report di VITA, l'intervento del direttore di Aiccon e The FundRaising School : è arrivato il momento di sperimentare nuove strade capaci di catalizzare risorse che non separino la dimensione contributiva da quella relazionale. È arrivato il momento di aprire cantiere del community fundraising, tema affascinante che obbliga i percorsi formativi a ricomporre in maniera moderna ed efficace, la tecnica con l’umano.
Come testimonia l'ultima edizione dell'Italy Giving Report di VITA le donazioni in Italia continuano a crescere (6,787 miliardi nel 2020, +19% rispetto all’anno precedente) sotto la spinta di emergenze e di progettualità in cerca di alleati, contributori e donatori disponibili a sostenerle. Una tendenza che va valutata non solo come stock, ma anche come flusso, poiché i tratti di questo ammontare ci raccontano nuove tendenze e nuove categorie di valore alla base del dono.
Siamo in una fase per certi versi istituente, dove anche i fondamenti della "raccolta fondi" per le attività d’interesse generale vanno ripensate. La diffusione dei pagamenti online e l’uso crescente del mobile disegnano un nuovo habitat e chiede alle organizzazioni non profit un profondo ripensamento delle strategie e delle competenze alla base della propria azione di raccolta fondi. La discontinuità e l’accelerazione di questi tempi impone alle organizzazioni una prospettiva nuova capace di coltivare il futuro, non più solo guardando al passato o cercando di stimolare un’adattabilità ai cambiamenti (imprevedibili) in corso, ma di introdurre elementi di rottura. L’aumento dell’ammontare medio delle donazioni delle imprese (sale da €900 a €1.550 l’ammontare medio delle deduzioni di società di persone; da €16.145 a €24.358 quelle di società di capitali) e la contemporanea riduzione del numero delle imprese donatrici (-24% le società di persone che hanno donato nel 2020, -15% le società di capitali), ci racconta come si stia alimentando una frattura nel tessuto produttivo del nostro Paese. Cresce la platea di imprese che si legano al destino di un progetto sociale perché riconoscono che la base della propria competitività sta in quella “coscienza di luogo” che Giacomo Becattini poneva come fonte sorgiva dell’identità e del valore dell’impresa. Aver compreso che lo sviluppo del territorio non si può fare senza le imprese è un’eredità che il Covid ci ha lasciato e da cui non si torna indietro. Questa nuova coscienza oggi deve interrogare la proposta di valore che il Terzo settore fa nel momento in cui “chiede risorse”, perché le imprese non si muovono più per logica compassionevole o filantropica, ma di sviluppo. Non si tratta più di “scambi di visibilità” efficaci, ma di costruire alleanze: è un altro lavoro. Profit e non profit non possono mettere a tema solo lo scambio, ma la relazione. I beni relazionali, e non appena i “contatti”, sono l’asset per misurare il patrimonio di una onp; riscoprire la maieutica diventa fondamentale per legare a sé persone, imprese e istituzioni. La bulimia di contatti ha fatto riemergere la domanda di relazione e di generare impatto sociale.
Non sempre le buone azioni (anche quelle rendicontate) generano buone trasformazioni. Diversamente da alcuni anni fa, infatti, assistiamo a donatori che preferiscono cambiare nel tempo le loro preferenze e che decidono di donare mossi da una aspettativa “diversamente utilitaristica”, ossia in grado di produrre utilità per i progetti e contemporaneamente di stimolare appartenenza e riconoscimento. In un’epoca in cui le emergenze si susseguono con una frequenza mai vista, diventa complesso replicare strategie basate sulla mera fidelizzazione della propria base di donors. Questa base, come detto, è al centro di “scosse telluriche” che segnalano la fine di una fase e l’urgenza di strategie capaci di misurarsi con una complessità che offre, se affrontata con la giusta postura, nuove e significative opportunità. Legare gli obiettivi di un progetto all’impatto sociale prodotto (misurandolo) fa emergere il lato sistemico della raccolta fondi e la necessità di professionisti sempre più ibridi, ossia capaci di interpolare e orchestrate risorse pubbliche e private, competenze interne ed esterne, in un ambiente dove la dimensione digitale è indistinguibile da quella fisica (OnLife direbbe L. Floridi). Una strategia di fundraising trasformativa che non si costruisce appena «aggiornando e formando le competenze», ma potenziando il capacity buiding di tutta l’organizzazione, chiamata a ridisegnare l’intera “catena del valore” rendendola più solida, più digitale, più aperta e trasparente e sempre più orientata a dimostrare i cambiamenti buoni che è in grado di generare per l’uomo e il pianeta.
Il fundraising del futuro dovrà, quindi, ricombinare in maniera evoluta e intenzionale il “fattore digi-cal” (digitale+locale) e rendere “esplicito” il valore per la comunità. È arrivato il momento di una innovazione di rottura. È arrivato il momento di sperimentare nuove strade capaci di catalizzare risorse che non separino la dimensione contributiva da quella relazionale. È arrivato il momento di aprire cantiere del community fundraising, tema affascinante che obbliga i percorsi formativi a ricomporre in maniera moderna ed efficace, la tecnica con l’umano.
*l'autore è direttore di Aiccon e di The FundRaising School
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