Famiglia
Il fronte delle roulottes sfida il Campidoglio
"Possibile che una città di 3 milioni e mezzo di abitanti non riesca a trovar posto neppure a qualche migliaio di zingari?".Il leader di S.Egidio racconta l'accoglienza.
Pionieri della solidarietà e dell’evangelizzazione dei lontani, i volontari di Sant’Egidio scoprirono la loro vocazione trent’anni fa, leggendo e rileggendo i Vangeli. Allora scelsero i poveri «per fede, non per ideologia» e cominciarono dalle baracche del velodromo di ponte Marconi la loro ricerca del Terzo mondo. Quel drappello di studenti del liceo Virgilio di Roma, scuola bene del centro storico, è diventato una comunità di 15 mila membri: la metà romani, il resto disseminati in giro per il mondo, dall’Europa dell’Est all’Indonesia, dal Guatemala alla Costa d’Avorio. Una miseria dalle molte facce quella di cui oggi si occupa Sant’Egidio: dai malati psichici e terminali ai disabili, dai carcerati ai rifugiati, dagli anziani in difficoltà ai bimbi soli… «Ma la cura dei nomadi e di tutti coloro che non hanno una casa, resta uno dei nostri principali “motivi”» dichiara monsignor Vincenzo Paglia, leader carismatico della comunità e parroco della chiesa di Santa Maria in Trastevere (dal ‘79 sede di Sant’Egidio, tel. 06.5895845).
Qual è la vostra politica per i senza tetto?
Ci preoccupiamo di star loro vicino offrendo innanzi tutto un tetto d’amicizia, nel quale possano trovare anche il sostentamento. Abbiamo cominciato con l’apertura della mensa di via Dandolo e di tutta una serie di uffici. Poi, nella misura in cui è possibile, ci impegnamo a mettere a disposizione, qui in quartiere Trastevere, degli spazi dove possano anche dormire, così da fornire loro un punto di riferimento fisico, ma anche e soprattutto umano.
Perché la pubblica amministrazione non riesce a contenere l’espansione incessante delle baraccopoli?
La situazione è legata al più complesso problema degli immigrati, un fenomeno internazionale di fronte al quale il nostro Paese è ancora impreparato, nonostante esista una precisa legge in materia. E questo lo si vede proprio dalle singole amministrazioni, che fanno fatica a rispondere alle esigenze che emergono di volta in volta.
Ma l’immigrazione non è mai solo un problema di ordine pubblico: è una questione sociale che interpella tutti i cittadini, chiamati ad assumere una prospettiva più ampia, più accogliente.
Perché, secondo lei, invece per tanta gente è così difficile accettare i rom?
Come cattolico, io credo a quello che viene detto in termini alti “peccato originale”, in termini semplici “peccato di egoismo”: tutti vogliamo avere una vita tranquilla e nella misura in cui qualcuno la interrompe ci mette in crisi. E’ quello che succede a Roma: una città di 3 milioni e mezzo di abitanti che non riesce ad accogliere neanche 3 mila zingari.
Come mai le baracche attecchiscono di solito in città piuttosto che in campagna, dove avrebbero spazi più ampi senza il problema del distacco minimo dal centro abitato?
I nomadi sono attirati dai punti economicamente più prosperi e da sempre sono le città il luogo di afflusso dei poveri e dei deboli: di chiunque sia in cerca di una vita più degna e di una via d’uscita dalla solitudine, senza sapere che proprio in città è più esposto all’emarginazione, al rifiuto, all’isolamento.
Una vicolo cieco, insomma…
Non è vero. Ma l’inversione di questa tendenza richiede un impegno globale che coinvolga ente pubblico, forze sociali e cittadini.
In che modo?
Penso a una soluzione ad ampio raggio, che parta dall’emancipazione delle zone di provenienza, aiutandole a trovare una loro via di sviluppo. Per l’accoglienza, invece, quello che occorre è un supplemento di anima in tutti. B.R.
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