Non profit

Il Forum riscopre la cooperazione di comunità

di Massimo Coen Cagli

L’Italia può tornare ad essere una “eccellenza” della cooperazione allo sviluppo. Anche per il fund raising

 

Ho preferito aspettare un po’ a commentare il Forum della cooperazione allo sviluppo al quale ho partecipato, per far sbollire una certa delusione circa gli scarsi esiti e valorizzare, se possibile, ciò che di nuovo è riuscito a mettere in campo.

Se da un lato infatti  il Forum sulla cooperazione allo sviluppo ha destato alcune perplessità soprattutto relativamente agli impegni concreti che il governo debba prendere in merito alla necessità di rafforzare la nostra politica di cooperazione e circa l’attivazione effettiva di soggetti sociali diversi dalle ONG nella politica di aiuto internazionale,  dall’altro ha messo in campo alcuni temi e approcci che sicuramente sono innovativi, se non altro per le prospettive che aprono.  E il merito di questo fatto va senza dubbio attribuito al Ministro Riccardi.

Faccio riferimento soprattutto ad alcuni aspetti emersi nelle conclusioni:

– Il primo è aver conquistato un consenso esplicito da parte degli altri rappresentanti del governo (Monti e Grilli, in primis) ad investire sulla cooperazione non solo come politica della solidarietà verso i paesi svantaggiati ma soprattutto come strategia portante della nostra politica internazionale.

– Il secondo è quello di aver ricollocato nella agenda politica e culturale del paese  il tema della cooperazione, da alcuni anni relegato solo al dibattito specialistico degli addetti ai lavori o al teatrino della solidarietà delle grandi campagne mediatiche.

– Il terzo è quello di aver coinvolto attorno al tema della cooperazione soggetti che fino ad oggi si erano (ed erano stati) tenuti ai margini, anche come conseguenza di un atteggiamento un po’ troppo autoreferenziale degli addetti ai lavori, inclusa buona parte delle ONG

– Il quarto è quello di aver ridato forza e orgoglio alle specificità italiane nelle politiche di cooperazione, richiamando anche  alcuni principi etici che sono propri della cultura sociale italiana: solidarietà, spirito comunitario, gratuità, reciprocità, centralità del bene comune; riconoscendo, al contempo,  l’esistenza di una cooperazione di comunità differente sia da quella governativa che da quella di stampo professionale.

Ecco, questi ultimi due punti hanno riflessi molto importanti anche sul piano della raccolta fondi, in un momento in cui si pensa che i donatori stiano abbandonando lo scenario della solidarietà a causa della crisi economica.

In verità questa interpretazione non è esatta o lo è solo in parte come abbiamo già detto in un altro post. Alcune indagini (come quella ultima realizzata da Slash) mostrano che vi è stato sì un calo delle entità delle donazioni nelle fasce delle persone meno abbienti, ma non dei donatori. In alcuni casi i donatori di fascia alta (tra i 100 e i 300 euro) sono aumentati.  E’ vero invece che una certa flessione è stata notata proprio sulle cause dell’aiuto umanitario e della cooperazione allo sviluppo.

Sicuramente può aver influito il fatto che il nostro paese è stato colpito da due terremoti che hanno focalizzato l’attenzione dei donatori sui “fatti” di casa nostra. Ma non è sufficiente a dare una spiegazione convincente. Negli ultimi tre anni differenti indagini hanno messo in evidenza che una percentuale di donatori e non donatori (compresa tra il 20 e il 30%) per continuare a donare (o per deciderlo di farlo) richiedono che le organizzazioni siano più trasparenti, dimostrino la efficacia dei propri interventi e che coinvolgano maggiormente i donatori nella vita e nei programmi delle organizzazioni.

Per rispondere a questa domanda di maggiore vicinanza e dialogo posta da una parte di donatori, il richiamo ad una cooperazione di comunità e al coinvolgimento di tutti i soggetti sociali appare una prospettiva che apre nuovi scenari di partecipazione. Una cooperazione in grado di mettere in connessione diretta le comunità italiane e quelle dei paesi in via di sviluppo, ossia di creare concreti legami di solidarietà e non episodici  atti caritatevoli, lungo la quale scambiare non solo le risorse economiche ma anche le competenze , la sensibilità, la professionalità la responsabilità sociale e il “saper fare comunità” propri degli italiani.

Vale la pena ricordare che il nostro welfare, ancora prima che di stato è un welfare di comunità che noi abbiamo costruito già a partire dal 1200 con le misericordie, le casse di risparmio, le opere pie per poi proseguire con le cooperative sociali, i movimenti dei diritti dei lavoratori e gli interventi sociali di grandi imprenditori nel dopoguerra ( e questo ci vene invidiato ancora da tutto il mondo e viene ritenuto un tratto saliente del nostro “italian style”).

Ed è questa la specificità italiana che potrebbe ridare un ruolo forte del nostro paese nella cooperazione e una spinta all’impegno dei nostri donatori, intesi non come spettatori generosi  ma come movimento sociale per il benessere di tutti. E a ben vedere questa nuova identità così auspicata dal Ministro Riccardi sta già nelle radici di tante organizzazioni italiane molte delle quali non sono neanche ONG istituzionalizzate, pur essendo  meno famose e meno di moda di tante altre sigle, fanno del radicamento nella comunità (religiosa e laica) e della loro capacità di mobilitarla concretamente per i diritti degli ultimi della terra, un loro tratto identitario.

La Scuola di Roma Fund-raising.it ha stimato che questa  cooperazione di comunità raccolga ogni anno circa 600 milioni di euro l’anno contro i 350 delle grandi campagne mediatiche e i 150 scarsi erogati dal governo per i progetti di cooperazione. SI tratta di una raccolta fondi alle radici dell’erba, basata sul contatto diretto e sui rapporti fiduciari che caratterizzano la vita di comunità e quella delle reti sociali; fortemente finalizzata al sostegno ad interventi diretti realizzati dagli stessi membri della comunità. E a farla sono le organizzazioni più radicate che nascono da una antica tradizione di impegno sia cattolica (come nel caso dell emissioni) sia laica (come nel caso di gruppi di medici e operatori sanitari o piccoli industriali e artigiani che sentono la necessità di mettere a disposizione del mondo il proprio saper costruire benessere e sviluppo).

Sarà mica un caso che questa cooperazione di comunità è oggi il primo canale per entità di raccolta fondi? Credo proprio di no.

@MCoenCagli @fundraisingroma

 

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