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Il filosofo di Putin

Aleksandr Dugin insegna all'università statale di Mosca, parla una decina di lingue, padroneggia la filosofia e la logica, cita con la stessa competenza Derrida e Lev Gumilëv. In Europa ha estimatori tra le destre estreme e tra i secessionisti, ma c'è chi lo ricorda al fianco dello scrittore Limonov. Chi è il filosofo che spaventa conservatori e analisti politici americani?

di Marco Dotti

«Molti americani non sanno chi sia, ma farebbero meglio a informarsi». Suonava pressappoco così il monito che, il 18 giugno scorso, Robert Zubrin lanciava dalle colonne di una delle pubblicazioni più influenti tra i conservatori d'oltreoceano, la "National Review".

Zubrin è un ingegnere molto noto, presidente della Mars Society, organizzazione no profit creata con l'obiettivo di esplorare il pianeta rosso, e ha una sua sede anche in Italia, nella bergamasca Curno.

Ma da chi dovrebbero guardarsi gli americani? Il bersaglio dell'articolo è chiaro e non è certo un marziano, ma un filosofo russo, professore di sociologia presso l'Università di Stato di Mosca. Il suo nome è Aleksandr Gel'evič Dugin e a riportarlo al centro della scena è stato, oltre alla recente crisi ucraina, uno scenario, in dieci punti, nominato "Primavera russa", che lo stesso Dugin ha presentato molto semplicemente sulla sua pagina facebook, ma alla "Nationa Review" (qui) ritengono sia stato preso in grande considerazione al Cremlino.

Gli americani esagerano, come sempre. Anche perché nel frattempo – come rilevava Paul Sonne, il 4 luglio 2015, sul "Wall Street Journal" – Putin sembrava aver abbandonato a se stessi i filorussi in Ucraina e Dugin, tornato sulle scene in grande stile, anche come ospite fisso di talk show televisivi, se la sarebbe presa a male, forse perché si attendeva un intervento di ben altro stampo in Ucraina.

Contestualmente alle sue prime critiche al presidente, Dugin si è così visto negare un avanzamento di carriera nell'università moscovita. Un segno, in una Russia dove – si sa – "non si muove foglia, che Putin non voglia". A Dugin sarebbe stato posto il "niet" alla presidenza del dipartimento, ma vista la statura del personaggio il fatto non può essere derubricato a una banale bega accademica. Tutt'altro.

Resta così sul terreno un dato meno contingente su cui – dal loro punto di vista – i media statunitensi fanno bene a allarmarsi: a 25 anni dal crollo del Muro di Berlino e dall'avvio della dissoluzione dell'Urss, alcune parole chiave di Dugin e del movimento che presiede – il Movimento Eurasista – sono riuscite comunque a affermarsi.

I suoi scenari e le sue chiavi di lettura sullo scontro tra potenze terrene eurasiatiche e potenze di mare filoamericane, in un'epoca dove le grandi narrazioni latitano, stanno catalizzando intelligenze e forze nel dibattito politico, geopolitico e culturale, e transitando con alterna fortuna anche per le segrete stanze del Cremlino.

Al di là del risvolto tattico immediato, è la tenuta strategica delle idee di Dugin a preoccupare gli analisti americani. Perché una volta in circolo, queste idee restano comunque a disposizione di chi se ne voglia servire, fosse pure "a posteriori". Accadde una decina di anni fa in Kazakistan, dove il presidente Nursultan Nazarbayev diede corpo a alcune ipotesi duginiane, creando l'Unione Eurasiatica

Secondo molti analisti americani il vento sta cambiando a una rapidità tale che nessuno può prevedere dove tirerà domani. La fine della logica che, dopo l'11 settembre 2001, aveva avvicinato Mosca e Washington ha dissolto vecchie certezze trascinandole nel vortice di un mondo multipolare – espressione, questa, cara a Dugin. Ci avviamo verso un'epoca di turbolenze geopolitiche – Siria, Irak, Ucraina ne sarebbero la riprova -, dove nessuno potrà dire se una figura come quella Dugin avrà seminato vento oppure tempesta. O se non avrà seminato affatto.

Osserva Dugin:«Quando consideriamo che cosa significa vita, vediamo che la vita è differenziata, la vita non è mai lineare, la vita è molteplice. Per questo la vita è pluralistica ed è ricca di forme diverse. Non è unicentrica e non è unipolare. La vita è sempre multipolare. L'opposizione è verso una società unipolare, lineare, universale, moderna e postmoderna rappresentata dagli Stati Uniti. Una società che impone i suoi valori nella forma del mercato».

E quando gli chiedi che cosa possa opporsi a questa società unipolare, Dugin non ha dubbi e risponde "Eurasia".

Ma, subito, specifica:«per comprendere bene che cosa è l'Eurasia, bisogna allontanarci dalla visione semplicemente geografica o geopolitica. Eurasia è il concetto, il concetto complesso. In questo senso possiamo considerarlo un concetto organico, che racchiude in sé differenti livelli. Possiamo così parlare del concetto-Eurasia come forma di civilizzazione alternativa alla civilizzazione occidentale. Concetto di civilizzazione che non si basa sulla dimensione universalista e mercantilista, ovvero su un'antropologia individualista. Tutt'altro. In questo senso, Eurasia come concetto è sinonimo di conservazione del vecchio mondo, a fronte del nuovo mondo. Nuovo mondo americano, dove gli Stati Uniti rappresentano la forma della modernità assolutizzata, senza radici. Vecchio mondo europeo o russo rappresenta la tradizione, ovvero la modernità con radici. Il concetto di Eurasia è così il concetto di realtà radicata».

l 6 luglio 2015, Dugin, che in patria è una sorta di celebrità, ha tenuto una relazione proprio sull''Eurasia. Invitato dall'associazione Lombardia-Russia all'Hotel dei Cavalieri di Milano, Dugin non ha nascosto la sua posizione sull'Ucraina, proprio mentre i militari di Kiev riprendevano il controllo di Slaviansk. «L'ho detto in tutte le emittenti russe e lo ribadisco anche qui: c'è un'unica via d'uscita, l'intervento militare russo».

È forse questo l'unico momento "ad effetto", in un discorso che Dugin ha articolato con pazienza, tessendo il ragionamento attorno a quella che lui stesso ha chiamato "quarta teoria politica", ossia «una forma di resistenza alternativa al postliberalismo, ma non concepita in relazione con le contrapposizioni ideologiche che hanno segnato il nostro mondo, dal 1789 alla fine del XX secolo». Ai tempi del suo sodalizio con lo scrittore Limonov, c'era chi affermava che dopo ogni loro incontro Limonov se ne andava politicamente più confuso di prima. Chissà.

Ciò che Dugin cerca di mettere teoreticamente in scacco è però una dimensione antropologica dell'americanismo. Un'antropologia che si basa su un individuo "americanocentrico", portatore di una forma globalizzata di idiozia. Laddove, ribadisce Dugin, "idiota" è da intendersi in senso etimologico, dal greco idiotes, ossia l'individuo privato in contrapposizione all'uomo pubblico. L'assolutizzazione di questa idiozia è per lui evidente nel tentativo di rompere, erodere, dissolvere ogni legame.

Anche Dugin, stando a quel che riportano le sue note biografiche, ha studiato aeronautica aerospaziale, ma per pochi anni. Non è infatti questo ad allarmare Zubrin e chi – sono in tanti, oramai – alternativamente lo definisce come "incarnazione del male" o "Rasputin redivivo", per via forse della sua lunga barba.

In un altro articolo, pubblicato il 31 marzo 2014 scorso su "Foreign Affairs", Anton Barbashin e Hannah Thoburn parlavano di lui come del "cervello di Putin" ("Putin's brain"), definendolo senza mezzi termini l'ideologo dell'annessione della Crimea.

C’è poi chi, come James D. Heiser, vescovo luterano, professore al Seminario Teologico del nordamerica, in un libro fresco di stampa ("The American Empire Should Be Destroyed": Alexander Dugin and the Perils of Immanentized Eschatology, libro su cui torneremo in un prossimo articolo) ha parlato di “teologia del male” e di pericolo escatologico riferendosi alla posizione di Dugin. Ma questo studioso raffinato e complesso, dai toni aspri ma dall'eloquio forbito sogna davvero l'apocalisse?

Lo scontro di civiltà non era invece la chiave di lettura che ha orientato fino a ieri proprio gli attuali critici americani di Dugin? Samuel Huntington, autore dell'influentissimo The clash of civilizations, definiva la Russia una "torn country", ossia una nazione in bilico. In bilico tra cosa? Tra l'Europa e l'Asia. Ma non è proprio a una specificità eurasiatica che Dugin fa continuamente riferimento?

Già nel 1995, d'altronde, il fondatore del Partito Comunista della Federazione Russa, avversario di Putin alle ultime elezioni presidenziali, Gennadij Zjuganov parlava del ruolo della Russia nello scontro di civiltà, avanzando una lettura che lo avvicinava più alla visione eurasiatista di Dugin – la Russia come perno del blocco continentale euroasiatico, in contrasto con quello oceanico rappresentato da Washington – che a una visione "comunista". Tra il 1992 e il 1995, i rapporti fra Aleksandr Dugin e il controverso Zjuganov erano ben più che saldi, e questo dovrebbe quanto meno segnalare una difficoltà di inquadrare Dugin secondo categorie consuete per la stampa occidentale, ma desuete per il resto del mondo, a meno di non volergli attribuire una spregiudicatezza davvero luciferina.

Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà, se non fosse che a Dugin ha una inedita capacità servirsi del web e dei nuovi media digitali.

Comunista? Anticomunista? Reazionario? Che cosa spaventa tanto, in questo filosofo poliglotta, dichiaratamente tradizionalista che nei suoi libri spazia da Platone a Spengler, da Aristotele a Leo Strauss e Baudrillard e privilegia Heidegger su tutti, tentando – come recita il titolo del suo ultimo lavoro, diviso in sei tomi: Noomakhiia– di riportare il dibattito a una “guerra delle menti e dei concetti”?

Additato come uomo del Male, Aleksandr Dugin vede e da sempre addita nel modello americano una forma di nichilismo attivo. Se l'identità si definisce partendo da ciò che le si oppone, ossia in termini à la Carl Schmitt dalla logica amico-nemico, in un mondo multipolare, osserva, l'Occidente si è ritrovato senza nemici, rivolgendosi così al proprio interno.

La Russia puntiana, in questa chiave di lettura, è l'ultima speranza per l'occidente di trovare un avversario fuori dai propri confini. Fallito questo tentativo, il processo di auto dissoluzione già in atto subirà un'accelerazione. La dissoluzione interna di legami, di cui le recenti crisi finanziarie sono un sintomo, non la causa, la fine del lavoro, della famiglia, la neo schisvitù, le nuove generazioni iper tecnicizzate ma consegnate alla " dementia digitalis", il bio potere spinto all'estremo… Tutto convergerà verso quel centro che ha un nome semplice e fragile al tempo stesso: la vita. Con quali conseguenze, è facile ma al tempo stesso terribile immaginarlo.

Se la lettura di Dugin è corretta, il turbocapitalismo finanziario svuoterà l'individuo di ogni residuo legame col mondo. Corretta o meno che sia, inutile negare che è un'analisi che molti, fuori dalle solite nicchie, in un'Europa che vira al populismo, mostrano oggi di condividere. Che sia proprio questo a spaventare?

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