Non profit

Il filantropo globale

In occasione della scomparsa di Paul Newman, ripubblichiamo un'intervista rilasciata al nostro settimanale. Tema centrale: ovviamente la filantropia

di Carlotta Jesi

«Chi l’ha detto che un Bill Gates italiano non esiste? Esiste di sicuro, solo che non si fa pubblicità. Anche se dovrebbe: dare il buon esempio è la tecnica di fundraising più efficace che c’è». Parla per esperienza personale, Paul Newman. La sua faccia da Oscar è stampata su tutti i prodotti della Newman’s Own, l’azienda alimentare che ha fondato nel 1981 con l’obiettivo di destinare ogni profitto in beneficenza. Bieca mossa di marketing? Di più, ironizzava all’inizio degli anni 80 la star di Hollywood aspirante filantropo: «Shameless exploitation for a good cause», sfruttamento senza vergogna per una buona causa.

Qualunque cosa fosse, ha funzionato: finora, la Newman’s Own ha stanziato oltre 200 milioni di dollari al terzo settore. E la rete dei villaggi Hole in the Wall che l’attore ha fondato nel 1988 per ospitare durante le vacanze bambini affetti da gravi patologie, oggi ha una rete di 23mila finanziatori nel mondo. Privati, fondazioni e aziende. Niente governi, niente Banca mondiale e niente agenzie internazionali, però. «Ogni tanto ho la tentazione di rivolgermi a loro, ma passa immediatamente: il non profit oggi è l’unico attore davvero disposto a rischiare qualcosa per rendere il mondo un posto migliore», risponde Newman.

Lo incontriamo a Milano, ospiti della Fondazione Dynamo che aprirà il primo villaggio Hole in the Wall d’Italia, a San Marcello Pistoiese. Newman lo finanzierà subito con un milione di dollari. Del macho de La Stangata, che oggi ha 81 anni, riconosci gli occhi. Blu. Su un corpo magrissimo, fragile al punto da temere di toccarlo, e su un viso trasparente.  Trasparente come le sue idee: «Qualcuno l’ha soprannominata responsabilità sociale. Ma la filantropia va chiamata col suo nome: per me è un investimento sulla comunità».

Vita: Da sfoggiare in pubblico?
Paul Newman: Da usare per dare il buon esempio e incentivare la cultura del donare. Senza strafare. Il solo fatto di dare, ripaga immensamente.
Vita: In che modo è ripagato dalla filantropia? Cosa ne riceve in cambio?
Newman: Sensazioni. Momenti di felicità. Mi viene in mente un episodio accaduto a una ragazzina affetta da cancro osseo. In uno dei nostri campi, ha incontrato una donna più grande con la stessa malattia, e quando questa se n’è andata, squadrandola dall’alto in basso come solo una donna con un’altra donna sa fare, s’è voltata verso di me, dicendo: «Paul, porta i tacchi!». I tacchi, capisce? Per ridare autostima ai ragazzini che non comprendono perché la malattia è toccata proprio a loro, basta pochissimo. Ma queste sono iniezioni di fiducia che si portano dietro per sempre. Vedi cose così e diventa impossibile non aver voglia di donare. Il dare è contagioso.
Vita: In Italia quasi nessuno filantropo esce allo scoperto. Non si sente parlare di grandi stanziamenti a questa o quella causa. È un problema di incentivi e agevolazioni fiscali, di ricchezza, o di cultura?
Newman: Gli incentivi sono molto importanti. Detto questo, però, la generosità è un sentimento universale. Storicamente gli italiani hanno donato molto alla Chiesa e forse per questo la vostra generosità è meno manifesta. L’importante, in qualunque paese del mondo, oggi è investire sul non profit. Su piccoli progetti che possono avere un grande impatto sociale. È eccitante pensare quante buone idee ci siano là fuori.
Vita: Per esempio?
Newman: Poche settimane fa ho fatto da cavia a un progetto semplice ma rivoluzionario: una macchina, grande quanto una lavatrice, che trasforma la più putrida delle acque in acqua potabile. E in maniera semplicissima: separa l’acqua pulita vaporizzandola e fa uscire quella sporca da un tubo di plastica. È una macchina che può produrre mille litri di acqua pulita al giorno dall’acqua più sporca e più contaminata a cui riusciamo a pensare. Io l’ho provata, e sono qua.
Vita: È questo che intende per mettersi in gioco, per rischiare?
Newman: Più di un miliardo di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile. A un problema come questo, chi non osa rischiare – come la Banca mondiale e i governi – risponde costruendo l’ennesima, inefficace, grande diga nel Sud del mondo. 
Vita: Quanto manca al lancio effettivo della macchina?
Newman: Stiamo lavorando su un tipo di motore non inquinante per azionarla. 
Vita: La brevetterete o lascerete che possa essere copiata nel Sud del mondo?
Newman: L’inventore è Dean Kamen, il geniale imprenditore che, tra le altre cose, ha costruito la macchina per fare la dialisi in casa. Il brevetto è suo e ha promesso di utilizzarlo solo per scopi medici. La commercializzazione, invece, sarà affidata a me e ai miei partner filantropici perché di questa macchina benefici quel miliardo di persone che oggi non ha accesso all’acqua. Il modello di business si ispira alla  Grameen Bank: creare reti di micro imprenditori che aiutino la comunità.
Vita:  La macchina ha già un nome?
Newman: Veramente non ci ho ancora pensato: God? Dio?

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