Non profit

Il fenomeno Campedelli

Low budget, deficit ridotto, buon calcio. Al Chievo il primato della "gestione sostenibile"

di Andrea De Benedetti

Questa è la storia di un uomo che fabbricava pandori. Siccome gli riuscivano bene, un giorno decise di cominciare a fabbricare anche miracoli, che sono come i pandori, solo un po’ più dolci. Uno, due, tre, dieci miracoli: tutti perfetti come prodotti seriali, tutti diversi come manufatti artigianali, tutti low-cost come le merci uscite da una filiera breve.

A fare miracoli senza limiti di budget, in fondo, sono capaci tutti. Il problema era riuscirci come presidente di una squadra di calcio. Una squadra di calcio senza storia, senza lignaggio, senza tifosi e soprattutto senza soldi. Se la favola-Chievo – così fu definita quando i gialloblù approdarono per la prima volta in serie A, e ancora oggi non siamo riusciti a trovare un’etichetta migliore – riesce ogni anno a rinnovarsi e a trovare il cammino dell’happy end, lo deve infatti proprio all’uomo dei pandori e dei miracoli, un signore poco più che quarantenne affetto da una fanciullesca passione per il calcio mitigata da cospicue dosi di concretezza: «il segreto del Chievo? E chi lo sa?» – esordisce Luca Campedelli. «Forse sta nel non fare il passo più lungo della gamba, nel cercare di non spendere più di quello che guadagniamo. Però non credo che il nostro sia un modello, soprattutto non credo che sia l’unico. Ci sono tante squadre di prima e seconda divisione, alcune anche di B, che costituiscono esempi altrettanto virtuosi di buona gestione e di lealtà sportiva.»

A raccontare uno per uno i miracoli del Chievo si rischia di cadere nell’arida cronaca e di perdere la prospettiva storica. Stiamo parlando di una squadra di quartiere che porta allo stadio poco più di 10.000 tifosi (dieci anni fa erano meno della metà), dell’unico club capace di risalire l’intera piramide del calcio italiano dall’ultima categoria alla serie A, di una società che occupa l’elite del calcio italiano non dai tempi della Berta, ma dall’alba del nuovo millennio, quando le distanze economiche tra i club di vertice e quelli di seconda fascia erano già siderali, e quando la suddivisione in “classi” – sancita in base delle quote di diritti televisivi – sembrava ormai definitiva. Penetrare in quel mondo, entrare a far parte di quell’aristocrazia, violare le rendite di posizione acquisite non era una semplice impresa: era, appunto, un miracolo. Alla sua prima stagione in serie A, nel 2001-2002, il Chievo terminò quinto, dopo aver veleggiato per buona parte del girone d’andata in testa alla classifica e dopo aver a lungo flirtato col quarto posto, che avrebbe dato accesso alla Champions League. Da allora, il miracolo si rinnova di anno in anno, come le lacrime di San Gennaro e il sangue della Madonna di Civitavecchia. L’ultima volta è accaduto pochi giorni fa a Torino, dove serviva un pareggio contro la Juventus per avere la certezza aritmetica della salvezza e pareggio è stato: 2-2 in rimonta, perché i miracoli hanno quasi sempre un bel copione e ottimi sceneggiatori. «Il calcio è bello per questi momenti qua. Esiste un’altra cosa al mondo che ti regali emozioni con questa continuità? A me non ne viene in mente nessuna. È per questo che faccio il presidente da quasi vent’anni. Per questo e perché non c’è nessuno che voglia prendere il mio posto.»

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