Formazione

Il falso mito della par condicio e delle quote rosa

«La recente polemica all’interno del Pd sull’esclusione da cariche ministeriali delle donne del partito è soltanto l’ennesima stanca conferma di un’ottusità coltivata ad arte da una parte importante della classe dirigente del nostro Paese», spiega Anna Detheridge, «Quello che serve è il pensiero femminile: quello che mette al centro la cura, la sostenibilità e la lotta ai giganti del web»

di Anna Detheridge

La recente polemica all’interno del Pd sull’esclusione da cariche ministeriali delle donne del partito è soltanto l’ennesima stanca conferma di un’ottusità coltivata ad arte da una parte importante della classe dirigente del nostro Paese da sempre. Il tema non riguarda le quote rosa e tanto meno una presunta esigenza di par condicio tra uomini e donne. Dare spazio alle donne nella rappresentanza politica, invece, sarà di importanza fondamentale, forse determinante proprio per affrontare le ingenti sfide del futuro su cui ormai sono d’accordo tutti: il cambiamento climatico, la sostenibilità, la lotta alla povertà, la battaglia contro lo strapotere dei giganti del web, concentrato in pochissime mani, tutte maschili. La tecnologia come anche la scienza non risolverà i nostri problemi come pensa l’altra metà del genere umano se non saremo in grado di orientare la ricerca verso obiettivi umanitari, di governare gli investimenti, di fare debiti “buoni” piuttosto che “cattivi”. Chiarisco per chi non avesse capito: nel parlare di “femminile” intendo il genere femminile e non il sesso femminile. Anche se nella maggior parte dei casi i due coincidono e per lunghi secoli, anzi per millenni, la cultura non ha fatto distinzioni anche perché il sesso femminile non ha avuto molte possibilità di esprimersi. Ancora oggi paga un prezzo molto alto per la propria emancipazione dal giogo maschile (inteso come sesso).

Il sesso femminile attraverso i secoli ha sviluppato attraverso l’esperienza quotidiana una vicinanza con le vicende della nascita, della vita e della morte, e soprattutto con la cura delle persone e delle cose, che agli occhi dei maschi l’ha reso subalterno, più vicino al mondo degli animali, al terrestre, alle “parti basse” dell’esistenza, e dunque immaginato soltanto in termini di serva del potere o del piacere, e per il solo fatto di esistere colpevole di lussuria, anche quella maschile da lei provocata, sempre comunque da condannare al silenzio. Per tutto il Novecento, il protagonismo femminista di donne realmente emancipate verificatosi in altri Paesi europei in Italia è mancato. Il femminismo a partire dagli anni 60, è stato fondamentalmente una dolorosa discussione tra donne in gran parte privilegiate, ma isolate e lontane dal potere. Sono state in molti casi le donne stesse a scegliere “la differenza” rispetto alla lotta per “l’eguaglianza” sul piano dei diritti. Un travaglio che ha costituito una via più lunga e tortuosa verso l’autoaffermazione ma che non ha rinunciato alla propria diversità.

Una vicenda culturale vissuta spesso in intimità, giocata in famiglia, una lotta senza testimoni e finora priva di grandi risultati politici. Nelle classi lavoratrici e all’interno del Pci la battaglia è stata ancora più dura, dove la cultura del lavoro promuoveva un’immagine maschile che rifletteva l’orgoglio del lavoratore e pater familias ancora più radicato che nelle classi borghesi. L’immagine femminile in Italia viene sovrastata dall’icona della maternità per eccellenza, il volto dolce della Madonna che identifica e inchioda le femmine attraverso i secoli al loro mestiere di mogli e di madri. Tutto ciò si evidenzia nell’assenza di immagini di donne in lotta, di suffragette, di eroine femminili italiane in carne ed ossa incatenate alle barricate, per ottenere la parità di diritti, come nel resto d’Europa. Le donne italiane sono rimaste per molto tempo imprigionate da quell’immagine coltivata ad arte con grande efficacia dal fascismo “della Madre piegata sul corpo dei figli morti per la Patria”. L’equiparazione nella retorica patria tra maternità e sacrificio che ha dominato la cultura italiana anche dopo la fine del regime, ha avuto, a mio parere, una parte importante nel rifiuto della maternità da parte delle giovani donne, per le quali la liberazione da quel “sacrificio” equivale a non fare figli.

Per le poche donne “libere” del Novecento le cose non sono andate meglio, e la figura ambigua di Nilde Iotti rimasta sullo sfondo di una libertà tollerata mai realmente concessa in quanto concubina del capo, è emblematica. Nell’Italia del Sessantotto non esistono immagini di donne ribelli nemmeno all’interno dello spazio protetto delle arti visive, allorquando altri Paesi europei hanno avuto le loro artiste eroine, femministe, perfomer, capaci di sbattere in faccia al sesso opposto l’oggetto del loro voyeurismo, negando loro ogni possibile appiglio erotico. Nel mondo del lavoro l’incapacità o peggio il rifiuto di una buona parte del potere maschile di ascoltare una voce critica o un pensiero originale proveniente dall’altro sesso è tuttora palese. Ma ancora più grave è l’incapacità degli uomini di sostenere la restituzione dello sguardo delle donne su di loro, il riconoscimento di una soggettività pensante alla pari. L’entrata delle donne nel linguaggio dell’arena pubblica porta con sé una rottura, uno scarto che il sesso maschile vorrebbe non vedere, continuando a incasellare le donne con le stesse categorie di sempre: mogli, madri, sorelle, prostitute. Ma collega? Peggio ancora capa? Come posizionarsi di fronte a chi è portatore di differenze irriducibili?

L’emergere nei primi decenni del terzo millennio di un pensiero “femminile”, che parta da una propria specificità ed esperienza di vita, sta finalmente offrendo alle donne una possibilità di autentica autorevolezza che nulla deve al modello maschile. Nel tenere presente la propria esperienza di donne, a partire dalle fonti calde della testimonianza, della narrazione di sé, dell’empatia e della consapevolezza della propria storia e sofferenza, le donne rivendicano anche nel mondo accademico, una propria rappresentazione del sapere, una rilettura del mondo naturale che comincia a riequilibrare il nostro sguardo sull’universo in tutti gli ambiti del sapere: una nuova ermeneutica indispensabile per contrastare quel pensiero “a breve”, quella “massimizzazione della ricchezza”, il prodotto di una visione muscolare e miope che ci ha portati sull’orlo dell’estinzione. Tuttavia nulla arriva per “gentile concessione” sicuramente non dal soggetto al quale si contende il potere. Ma la lotta per l’eguaglianza è la madre di tutte le battaglie per la pari dignità tra diversi. Ogni difesa del diritto di esistere passa dal riconoscimento del diritto alla rappresentanza ed è per questo che l’arena pubblica comincia a essere maledettamente affollata. Non si è più padroni nemmeno in casa propria, e non da oggi! È ora che lor signori si sveglino e comincino a imparare a fare distinzioni, non più in base a identità fisse, ma dove è necessario per merito, per bisogno e in base al bene comune. Intanto le donne se vorranno realmente acquisire potere al vertice e non soltanto in posizioni marginali, dovranno già da ora trovare l’energia e il coraggio di dissentire apertamente, finalmente in contrasto palese con le politiche necrofile e le ambizioni egocentriche di tanti “conduttori” fuori tempo massimo.


Foto di Chelsi Peter da Pexels

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