Non profit

Il fallimento della guerra preventiva

L'editoriale / Il blocco di poteri che avevano menato il mondo per il naso trascinandolo nella guerra tragica e insensata in Iraq, a suon di prove taroccate, sta andando in frantumi

di Riccardo Bonacina

Dunque, quel blocco di poteri che di qua e di là dall?Atlantico avevano menato il mondo per il naso trascinandolo nella guerra tragica e insensata in Iraq, a suon di prove taroccate, anzi taroccatissime, sta andando in frantumi. Negli States infuria il Cia-gate che ha portato alle dimissioni Lewis Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, rinviato a giudizio per ostruzione della giustizia, spergiuro e falsa testimonianza proprio a proposito delle false prove che l?amministrazione Usa esibiva anche in sede Onu per giustificare l?attacco all?Iraq. Da noi, infuria il Niger-gate, a causa di un falso dossier che i nostri servizi avrebbero confezionato per gli States al fine di far loro ottenere il semaforo verde alla guerra contro Saddam. Non bastano certo i reciproci «Grazie George», «Grazie Silvio» dell?ultimo incontro nello Studio ovale della Casa Bianca, tra il leader americano e il presidente del Consiglio italiano a coprire i disagi di una coalizione che da due anni perde pezzi, o a dimenticare i vertiginosi cali di popolarità e sondaggi sempre più catastrofici. Berlusconi, da parte sua, prima del siparietto di Washington, fiutando l?aria e cosciente del disastro iracheno – Stati Uniti e alleati a quasi tre anni dall?attacco all?Iraq non ne controllano il territorio né le risorse – ha capito di essere molto più solo di due anni fa. Si sono volatilizzati editorialisti e capitani d?industria che un giorno sì e l?altro pure invitavano il governo italiano a farsi parte in causa nell?esportazione a mano armata di democrazia in Iraq. Oggi, la parola d?ordine della guerra preventiva, che Papa Wojtyla aveva cercato di smontare anche dal punto di vista teologico, ha perso credibilità. Persino il Wall Street Journal è sceso in campo contro la guerra in Iraq. Con un lungo articolo di David Montgomery ha fatto notare che la guerra non divide americani da anti americani. Ma lega in modo forte e fraterno coloro che rimpiangono le vite perdute, coloro che hanno sempre saputo che lo strumento guerra sarebbe stato tremendo e inutile, coloro che si rendono conto che l?immensa distruzione di cui è capace una guerra, con le sue conseguenze che non finiscono, non può scalfire in alcun punto il terrorismo. Il costo della guerra, poi, è diventato insopportabile. Le oltre 2mila vittime americane, gli oltre 200 miliardi di dollari spesi, le almeno 30mila vittime civili e una quota del 7% di Pil in armamenti sono cifre sempre più insostenibili. Chi guarda ai fatti senza maschere ideologiche constata il fatto più clamoroso e più inaspettato di tutti: la crisi del potere americano, che oggi appare indebolito e sfuocato. La più grande potenza del mondo non ce la fa a domare il Paese straccione di Saddam, non trova più gli uomini per tutte le sue guerre e per riparare i suoi disastri naturali e contenere il caos di New Orleans deve richiamare i soldati dall?Afghanistan. E il segnale che gli Usa mandano al mondo frastornato e confuso è molto più grande di ciò che sta accadendo in Iraq. Speriamo che l?eccitazione anti Iran (per inciso anche Vita ha aderito alla fiaccolata in difesa del diritto all?esistenza di Israele) o anti Siria non spenga quel segnale che chiede al mondo il rilancio di una ragionevole e realistica prospettiva di pace. Una prospettiva in cui, al di là delle polemicucce partitiche, vorremmo vedere impegnati tutti coloro che non si rassegnano al fatto che la bandiera arcobaleno sia diventata una bandana.


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