Tripoli ha dunque ceduto alle pressioni internazionali, concedendo l’agognato “permesso di soggiorno” ai circa 400 migranti clandestini eritrei che in questi giorni rischiavano di fare una brutta fine nel deserto libico. Naturalmente, la cautela è d’obbligo in queste circostanze, non foss’altro perché la concessione avviene in cambio di “lavori socialmente utili”. Una dizione che, secondo alcuni osservatori, potrebbe celare un’altra dolorosa punizione, quella dei “lavori forzati”. Per non parlare del fatto che la Libia non riconoscerà mai loro lo status di rifugiati per tutelarli. Andrebbe comunque ricordato che si tratta di una vecchia storia: in questi anni un numero indicibile di africani che tentavano di fuggire dall’inferno dei loro rispettivi Paesi – dal Darfur all’Eritrea, per non parlare della Somalia – sono stati vilmente soppressi o rispediti al mittente dalle autorità libiche, decretando la loro condanna a morte. Ecco perché lo scorso 29 giugno, dopo la ribellione degli eritrei al porto di Misurata, esplosa perché non potevano imbarcarsi per l’Europa, i profughi sono stati arrestati e deportati in massa in pieno deserto, lontano da occhi indiscreti e soprattutto da ogni genere di aiuto umanitario. Eppure la provvidenza – è il caso di riconoscerlo – ha voluto che scattasse una vera e propria operazione di salvataggio, innescata da un semplice “sms” lanciato dalle roventi celle del campo libico di Brak di Sheba, e ripreso in Italia da una rete improvvisata di nostri connazionali, espressione eloquente di quella solidarietà fattiva che scorre nel sangue di tanta gente di buona volontà. Al contempo, andando al di là delle contrapposizioni nell’arena politica italiana, vanno riconosciuti sia l’impegno della nostra diplomazia in questa penosa vicenda, esercitando una doverosa “pressione” su Tripoli, in ottemperanza al trattato di amicizia italo-libico; come anche la sensibilità dell’opposizione nel richiedere un intervento governativo a seguito delle denunce di pestaggi ed altre malversazioni, imposti dalle forze libiche ai malcapitati eritrei. D’altronde, qualora questi profughi fossero stati rimpatriati, il regime di Asmara si sarebbe comunque vendicato nei loro confronti con torture e altri abusi. Bisognerà ora vedere fino a che punto la Libia manterrà fede al proprio impegno, considerando che i “lavori socialmente utili” di cui sopra, quelli che gli eritrei dovrebbero svolgere nelle prefetture libiche, potrebbero rievocare l’incubo del “pogrom” da parte del la polizia libica. Detto questo, è ormai evidente che l’Europa deve assumersi le proprie responsabilità, concertando un’azione politica comune, rispettosa del sacrosanto diritto d’asilo, nei confronti di quei migranti provenienti da Paesi in preda a regimi totalitari. Ben vengano dunque iniziative di monitoraggio sui diritti umani, come nel caso dell’ordine del giorno “Marcenaro”, accolto favorevolmente al Senato, che impegna il nostro governo a vigilare sull’applicazione del trattato di amicizia con la Libia. Come anche l’accoglienza in Europa e dunque anche in Italia dei profughi come rifugiati politici. Sono molti a credere che la distinzione oppositiva tra migranti economici ed esuli non possa essere interpretata rigidamente, come spesso avviene in Europa, in quanto la maggior parte delle persone in cerca di asilo oggi è anche un migrante economico. E poi in un mondo “villaggio globale” diventa quasi stucchevole rimarcare certe nefandezze perpetrate dai satrapi di turno in giro per il mondo, quando alla prova dei fatti si fa poco o niente per combattere la povertà su scala planetaria, fomentando ad esempio il traffico illecito di armi e lo sfruttamento delle fonti energetiche. Sarebbe pertanto pretestuoso lavarsi la coscienza di fronte a questi drammi. Parafrasando Umberto Galimberti, equivarrebbe ad una sorta di imperdonabile “analfabetismo emotivo”.
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