Famiglia

Il Doctor House non sarà più di moda

Sanità. Mario Melazzini immagina una medicina più umana. E più sociale

di Redazione

Nel 2018 il ministro italiano della sanità si chiamerà Turrero. Sarà il frutto della fusione genetica (chissà che faranno le nanotecnologie tra dieci anni?) tra la Turco e il Ferrero di oggi. E se Ferdinando IV di Borbone governava sul Regno delle Due Sicilie, lui sarà il boss dei due settori più strategici (e dei cumuli di soldi più consistenti) dell?Italia che verrà: sanità e politiche sociali. Che avranno di necessità ?una poltrona per due?. È questa – in versione sceneggiata, non ce ne voglia – la visione di Mario Melazzini per il futuro della sanità italiana. Lui che sulla sanità italiana ha uno sguardo ?trifronte?: è a un tempo medico, paziente e voce del terzo settore attivo nell?area. Cinquant?anni nel 2008, Melazzini è direttore del Day hospital oncologico della Fondazione Maugeri di Pavia, presidente di Aisla – Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, e malato, proprio di Sla. Vita: Tre aggettivi per descrivere la sanità italiana di oggi. Mario Melazzini: Aperta, discreta, poco attenta al confronto con il sociale. Vita: Che andranno rimpiazzati con… Melazzini: Tra dieci anni la sanità dovrà dare garanzia di cura a tutti, al posto di discreta dovrà essere ottima, e dovrà arrivare all?integrazione reale fra sanitario e sociale, che oggi è solo sulla carta. Non dovrà più esistere un ministero della Salute e uno delle Politiche sociali, ma ?il? ministero della Salute e delle Politiche sociali. Vita: Una fusione necessaria viste le due emergenze all?orizzonte, grandi anziani e non autosufficienza. A quali condizioni non saranno una bomba? Melazzini: È una questione puramente culturale. L?anziano, come il ragazzino che è in carrozzina per una distrofia muscolare, sono soggetti fragili, che hanno difficoltà a muoversi, a fare la spesa. Serve uno sforzo organizzativo, aprire la cultura, vedere lontano. Oggi vediamo solo vicino, troppo vicino, e diamo per scontato che troppe cose saranno sempre così come sono adesso. Vita: La Convenzione Onu sui diritti dei disabili, per esempio, sarà concreta? Melazzini: Sì. Quella della disabilità sta diventando una cultura forte, perché è più capace di fare lobbying e perché stanno cambiando i rapporti fra le persone. Bisogna smettere di vedere malattia, disabilità e fragilità come qualcosa che non ci appartiene, per considerarle parte integrante della società. Ma credo sarà la realtà stessa ad obbligarci a prendere atto che le cose stanno così. Vita: Cosa ci regalerà la ricerca sanitaria? Melazzini: Avremo i farmaci intelligenti, che colpiranno selettivamente la cellula malata. Sarà una rivoluzione, perché garantiranno una netta diminuzione degli effetti collaterali, che oggi sono ancora importanti. Guadagneremo in qualità della vita per i malati. Vita: Avremo capito cosa vuol dire ?dignità dei pazienti?? Melazzini: È il discorso culturale di prima. Mettere la persona al centro, umanizzare la medicina, sono cose che ripetiamo continuamente: spero che tra dieci anni saranno una realtà. Andiamo in questa direzione, però con molte difficoltà. Vita: Perché? Melazzini: Mettere la persona al centro è un bisogno fortissimo del malato e della persona fragile, ma questo desiderio non è ancora sentito dai medici. Oggi il medico è indirizzato al guarire, ma dimentica che la malattia c?è perché c?è l?uomo e che bisogna considerare anche l?uomo. Una condizione indispensabile per umanizzare la medicina è la riforma della facoltà di Medicina, e dieci anni per questo sono pochi. Il fatto è che i medici escono dalle università con un?idea mitizzata di se stessi, si vedono come dèi onnipotenti, tipo ER o Doctor House. Poi quando ti scontri con i tuoi limiti e con l?impotenza della medicina – che c?è – molti si tirano indietro. Invece è qui che deve uscire la professionalità: il valore aggiunto del buon medico sarà la capacità di avere relazioni umane con le persone malate. Vita: E come ci arriveremo? Melazzini: Gli studenti di medicina devono avere ben chiaro che sono lì per le persone malate, non per le malattie. Ci sono studenti eccellenti che però dal punto di vista del rapporto col malato non valgono nulla. Bisogna avere il coraggio di dirgli che devono dedicarsi a qualcos?altro: al laboratorio, alla diagnostica, non alla cura diretta del malato. Vita: L?alleanza terapeutica è un tema caldissimo. Come evolverà il dibattito? Melazzini: La strada giusta è quella di recuperare la vera alleanza terapeutica, che sta solo nel rapporto tra medico e paziente. Il medico non può essere l?asettico dispensatore di prestazioni sanitarie. Non basta dire: tu hai il cancro, ci sono tre terapie: A, B, C, scegli. Informare significa personalizzare la comunicazione, portare il malato alla consapevolezza step by step, in modo che il rapporto con la malattia venga codificato piano piano. A quel punto il testamento biologico non serve più. Vita: Il testamento biologico ci sarà? Melazzini: Spero almeno che sarà scomparsa questa terribile confusione fra testamento biologico, autodeterminazione, libertà che oggi vengono usati come sinonimi. Secondo me del testamento biologico non c?è bisogno né oggi né tra dieci anni. C?è bisogno – e subito – del coraggio della presa in carico del malato. Vita: Parlando di bioetica, come vede il Paese tra dieci anni? Melazzini: Usciremo dalla spaccatura solo se affronteremo il tema etico diversamente. Oggi tutto si riduce a capire dove sta la colpa, chi è imputabile e chi no, dove sta il limite della libertà del medico e di quella del paziente, decidere chi-cosa-come sanzionare. I comitati di bioetica oggi servono solo a dare un bollino di conformità ai protocolli sperimentali o a giudicare un medico, mentre dovrebbero servire a tutelare la vita umana, in maniera asettica e libera. Speriamo.


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