Economia

Il diritto di contare… e di innovare

Per rendere le aziende dei luoghi migliori, al loro interno e verso l’esterno, non c’è una ricetta unica. Ma, come afferma Serena Ceccarelli di Sanofi Italia nella quinta puntata della nuova rubrica di VITA, c’è un irripetibile mix tra strategie, misurazioni, sensibilità e cultura. Un ulteriore vantaggio? Non ci si annoia mai

di Nicola Varcasia

Nel famoso film Il diritto di contare, le tre protagoniste vivono una drammatica ed entusiasmante storia di riscatto sociale e professionale. La brillante matematica Katherine Johnson assieme alle sue due amiche abbattono in serie tutte le barriere e gli stereotipi dell’America del loro tempo. Col risultato di riuscire ad incidere sul loro destino, sulla società in cui vivono e sulle sorti del primo viaggio umano sulla luna. Nella visione di Serena Ceccarelli, Corporate communication, Employee engagement & Csr di Sanofi Italia, protagonista della quinta puntata della nuova rubrica di VITA, l’idea stessa di sostenibilità è rappresentata da questa avvincente trama. In una appassionata conversazione che ha abbracciato in particolare le motivazioni di fondo e l’approccio che può e deve guidare persone e aziende verso risultati ambiziosi in questo campo, è emersa subito una cosa: «Il mondo è cambiato in questi 20 anni e quelli della sostenibilità sono temi che richiedono determinazione e concretezza e dai quali non possiamo prescindere né come individui né come collettività. Proprio come hanno fatto Katherine e le sue amiche, ciascuno nel suo ambito e con le sue possibilità».

Partiamo proprio dalle possibilità: come si è avvicinata ai temi dello sviluppo sostenibile?

Posso dire che sia stata la sostenibilità a trovare me.

In che modo?

Ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera circa 25 anni fa in una multinazionale basata in Inghilterra, dove il dibattito sull’evoluzione della sostenibilità era già molto presente e vivace. Mi sono appassionata sempre di più e non ho voluto abbandonarlo fino all’approdo in Sanofi.

Qual è l’aspetto più interessante?

È sostanzialmente impossibile annoiarsi, perché fa parte del percorso di crescita e sviluppo dell’azienda e, per esserne all’altezza, sono richieste conoscenze, competenze e attenzione sempre maggiori. Oggi più che mai è indispensabile valutare l’impatto che un’azienda ha nel lungo periodo sulla sostenibilità del Paese. E questa è anche una responsabilità collettiva che coinvolge le imprese private, le pubbliche, il Terzo Settore e tutti gli attori sociali. È giusto crederci, esserci ed esserci insieme. È una passione che ci accompagna, è un credo.

In che senso?

Mi esprimo qui in qualità di professionista ma ancora prima di cittadina e di madre. Sento il dovere di dare il mio contributo affinché le prossime generazioni possano guardare al futuro con la speranza di vivere in un mondo migliore. Dopo la pandemia e tutto ciò che è successo dopo, la guerra in primis, il rischio della sfiducia è grande.

Come si fa a dare speranza e fiducia?

Attraverso il lavoro, le attività concrete e ponendosi degli obiettivi. Occuparsi di sostenibilità oggi significa avere un approccio consapevole e responsabile verso l’ambiente, l’economia e la società proprio con l’obiettivo di garantire uno sviluppo equo e duraturo per le generazioni future. Le sfide sono tante, c’è solo il compito di scegliere e, in questo, è corretto che ogni azienda che si dia delle priorità strategiche in relazione al proprio contesto e alle proprie competenze, nella cornice degli obiettivi SDG che guidano e aiutano

Come formate in azienda le competenze su questo fronte?

A livello di Gruppo, c’è una strategia di posizionamento molto precisa che per determinate posizioni in ambito di sostenibilità prevede la ricerca di persone con percorsi ben definiti: oggi l’università viene incontro perché forma i giovani interessati con corsi di studio mirati. Inoltre, in questi anni di evoluzione si sono affermati molti professionisti e manager con esperienza diretta sul campo che, come dicevamo prima, non è più pionieristico come vent’anni fa. Poi, dipende dal tipo di focus che si va a scegliere.

Non c’è una sola specializzazione nella sostenibilità.

Il campo è vastissimo. Ad esempio, le competenze e le specializzazioni in ambito ambientale sono notevoli. Nel nostro caso, per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile, cito tra i tanti la neutralità carbonica entro il 2030 e zero emissioni entro il 2045, stiamo lavorando su più fronti quali la decarbonizzazione dei sistemi sanitari, la digitalizzazione dei nostri studi clinici così come lo sviluppo di nuovi farmaci con eco design sostenibili. Per darsi questi obiettivi, realizzarli e misurarli occorrono una pluralità di figure.

Rispetto alla sostenibilità sociale?

Anche questo è un mondo che richiede competenze molto diverse. Come azienda farmaceutica, la famosa S debole dell’acronimo Esg per noi è invece importantissima, perché il benessere e la salute delle persone sono il nostro primo impegno. Un altro percorso nel quale siamo impegnati è quello della certificazione di genere: siamo alle fasi conclusive e per noi questo risultato è il riconoscimento di un percorso già avviato da anni in cui l’attenzione agli aspetti della diversità e dell’inclusione sono stati presenti nel cuore della cultura e del modo di essere e di vivere in Sanofi. Teniamo molto anche gli aspetti prettamente di rapporto con il territorio.

In che modo?

Attraverso una pluralità di progetti di volontariato e di coinvolgimento diretto delle nostre persone dentro e fuori l’azienda, con un’attenzione anche a collaborare e sostenere realtà sociali più piccole, in modo capillare. Qui entrano in gioco competenze più di carattere umanistico e sociale, dove la cultura ha un ruolo fondamentale. Scherzando, ma non troppo, dico sempre che l’ideale sarebbe un ingegnere laureato anche in filosofia!

Per “fare” sostenibilità ci sono sempre più regole, non c’è il rischio di soffocare?

L’organizzazione strategica è un driver importante ed è giusto che continui a evolvere in relazione allo sviluppo e all’innovazione che ci accompagnano, anche a livello di Gruppo. La compliance è un altro elemento fondamentale soprattutto, aggiungo, in un’azienda del settore farmaceutico che tratta la salute delle persone. Però non sono sufficienti.

Cosa manca?

La capacità di far sì che la cultura d’impresa entri nella quotidianità delle persone e sia guidata da valori e comportamenti condivisi, che riflettono il modo di essere ed agire dei singoli. Cultura e sensibilità individuale si alimentano e crescono insieme, in modo che tutti gli elementi siano interconnessi e interagiscano in modo positivo: non può essere che l’organizzazione, la strategia d’impresa e la cultura diffusa vadano in direzioni diverse. In un percorso guidato e accompagnato questo può fare la differenza per costruire le basi che ci aiutano a spingerci oltre e portare un cambiamento concreto.

Molte aziende virtuose sono nate prima dell’avvento dei temi della sostenibilità come li conosciamo oggi: si tratta quindi solo di una nuova “narrazione”?

Non è e non deve essere solo una narrazione. Per me è una volontà, oggi più che mai, di esserci, agire, portare un cambiamento concreto nel Paese attraverso l’impatto che dell’azienda sul contesto in cui opera. Poi questo diventa narrazione, certo, ma dopo. Vendersi per ciò che non si è sempre più pericoloso e inutile.

Perché?

Oltre che poco etico, e già basterebbe, c’è una consapevolezza maggiore dei cittadini e consumatori e il rischio reputazionale per un’azienda è veramente grosso. Occorre andare avanti sempre per gradi.

Come?

Chiaramente il discorso è lungo e occorre semplificare. Prima di tutto bisogna decidere strategia e posizionamento, in base ai propri valori di fondo. Dopo si cominciano a realizzare azioni concrete e, visti i risultati, ci si può anche esporre: è giusto che un’impresa racconti ciò che fa di buono ma senza strillare, è un mantra che porto con me da una vita. È sufficiente raccontare, se sono davvero presenti, valore e competenza si rendono evidenti da soli.

Qual è la soddisfazione più grande nel suo lavoro oggi?

Lavorare in un’azienda come Sanofi, che impiega 100mila persone nel mondo e 2mila in Italia significa essere parte di una comunità che può fare la sua parte in modo tangibile. Valorizzare questa disponibilità e incanalarla in azioni che possono produrre cambiamenti tangibili è forse la parte che dà più soddisfazione. Al di là dei tanti progetti specifici, sapere di essere all’interno di un sistema che nella sua complessità può fare la differenza ed essere promotore di questo percorso.

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