Inclusione

Il diritto allo studio di uno studente con disabilità? Non può essere una questione di soldi

Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello dei genitori di un alunno a cui il Comune aveva ridotto le ore di assistenza scolastica rispetto a quanto previsto dal Pei. Secondo Giuseppe Arconzo, costituzionalista ed esperto di diritti delle persone con disabilità, si tratta di una decisione che va contro la giurisprudenza costituzionale più recente e che potrebbe creare un precedente pericoloso

di Veronica Rossi

Un duro colpo per i diritti degli studenti con disabilità. È così che la Fish definisce, in un comunicato, la sentenza 1178/2024 del Consiglio di Stato, con cui è stato respinto l’appello dei genitori di uno studente che si era visto ridurre dal Comune le ore di assistenza scolastica assegnate per l’anno scolastico 2022/2023 rispetto a quanto previsto dal Piano educativo individualizzato – Pei e richiesto dalla scuola. Per i familiari l’inclusione scolastica dovrebbe prevalere rispetto alle esigenze di bilancio, ma l’organo giurisdizionale ha stabilito altrimenti, con la motivazione che il Pei ha natura di proposta vincolata alle risorse disponibili, richiamando il concetto di “accomodamento ragionevole” contenuto nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e sottolineando che la riduzione delle ore non ha pregiudicato il percorso educativo dello studente. La Fish, tuttavia, chiede al Consiglio di Stato di rivedere la sua posizione, secondo l’organizzazione in contrasto con la giurisprudenza della Corte Costituzionale.

«Di fronte a queste gravi incongruenze e al palese conflitto con la precedente giurisprudenza della Corte Costituzionale e dello stesso CDS, Fish auspica con forza che venga convocata al più presto un’adunanza generale del Consiglio di Stato», afferma Vincenzo Falabella, presidente dell’associazione, «affinché sia adottato un orientamento coerente e rispettoso dei diritti degli studenti e studentesse con disabilità, ristabilendo la piena tutela di diritti che non possono e non devono essere soggetti a interpretazioni riduttive o condizionamenti di natura economica. Questo pronunciamento fa arretrare in termini culturali il nostro Paese».

Giuseppe Arconzo, costituzionalista ed esperto di diritti delle persone con disabilità, ha analizzato con noi la sentenza, evidenziandone le criticità e immaginandone le conseguenze.

Professore, ci spiega questa sentenza?

Questa sentenza è stata adottata dal Consiglio di Stato a seguito di una precedente decisione del Tar dell’Emilia-Romagna relativa ad un ricorso da parte di due genitori che avevano visto attribuire al proprio figlio un numero di ore di assistenza scolastica inferiore a quanto indicato nel Pei; in particolare il documento stabiliva che il bambino avrebbe avuto diritto a 13 ore, mentre il Comune gliene concedeva soltanto sette. Il Tar aveva respinto il ricorso con argomentazioni simili a quelle che ha utilizzato il Consiglio di Stato nella sentenza adottata la settimana scorsa.

E che significato ha la sentenza?

La cosa inquietante è che questa sentenza, senza fare alcun riferimento alla giurisprudenza costituzionale rilevante più recente, incide molto negativamente su alcuni elementi che danno sostanza e concretezza al diritto allo studio delle persone con disabilità. Sappiamo che gli alunni con disabilità possono avere bisogno sia delle ore di sostegno didattico con l’insegnante di sostegno, sia delle ore di assistenza scolastica con gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione. Questi professionisti forniscono agli studenti un supporto di carattere non prettamente didattico; ma sono coloro che aiutano a comunicare, a promuovere l’autonomia personale, a migliorare le modalità di relazione con gli altri compagni e il corpo docente e in alcuni casi ad andare in bagno o a usufruire del servizio mensa. Si tratta, evidentemente, di attività indispensabili per poter fruire a pieno del diritto allo studio. Il Consiglio di Stato, in modo a mio avviso fuorviante, distingue la parte dell’assistenza didattica da quella dell’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, sulla base di un’interpretazione molto discutibile della normativa che garantisce l’inclusione scolastica.

Questa sentenza incide molto negativamente su alcuni elementi che danno sostanza e concretezza al diritto allo studio delle persone con disabilità.

In che modo?

Sostanzialmente il Cds afferma che, ai fini del diritto allo studio, un conto sono le misure di assistenza didattica vera e propria – cioè quelle che forniscono i docenti specializzati – e un altro sono le attività di assistenza scolastica per l’autonomia e la comunicazione personale. Secondo il Cds, per quanto riguarda gli insegnanti di sostegno, quanto sancito dal Pei non incontrerebbe ostacoli di natura economica, mentre per quanto concerne l’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione, il Pei non avrebbe valore di cogenza e quindi le indicazioni in esso contenuto non sarebbero vincolanti per i Comuni. Secondo la sentenza, anche in ragione di una non felice formulazione del d.lgs. n. 66 del 2017, gli Enti locali hanno un margine di apprezzamento sul numero di ore di assistenza scolastica da attribuire a ciascun alunno con disabilità, anche alla luce delle risorse finanziarie che hanno a disposizione. In definitiva, il Comune può far valere l’assenza di risorse economiche per fornire un numero di ore di assistenza minore rispetto a quello individuato dal Pei, che avrebbe dunque sul punto natura di mera proposta.

E qual è il suo commento?

A mio modo di vedere questa sentenza presenta numerose criticità. Essa non tiene conto di alcuni principi importantissimi – si badi, tuttora validi – sanciti dalla Corte costituzionale italiana, ma anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La prima, sul tema del tema dell’inclusione scolastica, con le sentenze n. 80 del 2010, n. 275 del 2016 e n. 83 del 2019 ha affermato che non ci sono ragioni di carattere economico che possano limitare il diritto allo studio delle persone con disabilità. Soprattutto, proprio l’assistenza è stata ritenuta indispensabile per garantire il diritto allo studio: ci sono dei passaggi della sentenza 275/2016 e della sentenza 83 del 2019 della Corte costituzionale che lo affermano esplicitamente. Viene da chiedersi come sia possibile che il Consiglio di Stato, che è l’organo di secondo grado della giustizia amministrativa italiana, non abbia tenuto conto di questa notissima giurisprudenza costituzionale, che ha contribuito a interpretare l’articolo 38 della Costituzione e non abbia neppure voluto chiamare in causa la Corte costituzionale.

Con questa sentenza il nostro ordinamento fa dunque un imprevisto passo indietro, perché i genitori degli alunni con disabilità non hanno più la certezza che quanto è sancito dal Pei sia un diritto esigibile per i propri figli.

Su principi così rilevanti non si può pensare soltanto al caso singolo e alle sue concrete specificità

La sentenza affermava anche che non era stato pregiudicato il percorso educativo dello studente, ma com’è stato possibile stabilirlo?

Questa parte della decisione può interpretarsi in due modi: i giudici potrebbero essersi convinti in modo decisivo che, nel caso di specie, il Pei non era stato costruito in modo particolarmente attento: avendo ottenuto l’alunno ugualmente dei buoni risultati con il numero di ore di assistenza scolastica assegnate dal Comune, la richiesta dei genitori è stata dunque ritenuta infondata. La seconda possibilità è che volendo enfatizzare le motivazioni prima riassunte, il Consiglio di Stato abbia voluto sottolineare che, nel caso in questione, le ore di assistenza scolastica individuate nel PEI non erano neppure necessarie nella loro totalità.

Quale che sia stato l’iter logico dei giudici, resta il fatto che su principi così rilevanti non si può pensare soltanto al caso singolo e alle sue concrete specificità: se anche in questa situazione il Pei fosse stato ritenuto mal costruito, il Consiglio di Stato non poteva arrivare a dimenticarsi di tutta la precedente giurisprudenza della Corte costituzionale, ma anche della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, qualche anno fa (sentenza G.L contro Italia, del 10 settembre 2020), in un caso molto simile a questo, in cui non erano state garantite a una bambina le ore di assistenza scolastica, era giunta a condannare l’Italia.

Con questa sentenza si viene a creare un pericoloso precedente?

Il rischio c’è, perché da oggi in poi tutti gli enti locali, a fronte delle richieste dei dirigenti scolastici di inviare assistenti all’autonomia e alla comunicazione, potrebbero – proprio sulla base di questo precedente – diminuire le ore rispetto a quanto indicato nel Pei, cioè rispetto alla valutazione fatta dal corpo docente insieme alla famiglia, all’unità multidimensionale che si occupa del bambino o della bambina, adducendo motivazione legate alla carenza di risorse finanziarie. Questo, evidentemente, rischia di creare un grave danno all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità.

E diventa, quindi, a discrezione del Comune dire se ci sono i soldi o meno.

Secondo il Cds sì. Ma bisogna ricordare con forza la sentenza n. 275 del 2016 della Corte costituzionale, che è tuttora un precedente valido e che non è messo in discussione (e neanche citato!) da questa pronuncia del Consiglio di Stato. Quella decisione riguardava proprio il trasporto e l’assistenza scolastica per gli alunni con disabilità. In quel caso la Corte ha affermato che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». In altre parole, garantire il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità è un dovere per le istituzioni e non può essere subordinato a esigenze finanziarie. Non ci sono dunque ragioni economiche che tengano. I Comuni prima sono obbligati ad assicurare i diritti fondamentali (e tra questi rientrano anche le misure di assistenza scolastica per studenti e studentesse con disabilità) e poi potranno ripartire le loro risorse per altre spese, da considerarsi comunque facoltative.

Garantire il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità è un dovere per le istituzioni e non può essere subordinato a esigenze finanziarie

C’è un modo per arginare le conseguenze di questa tendenza?

Questa è una sentenza definitiva, ma riguarda solo il caso concreto da essa affrontato: i genitori dell’alunno, volendo, potrebbero però ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo sulla scorta del precedente del 2020 che ho prima richiamato. A livello più generale, come dicevo, c’è certo il rischio che sulla base di essa i Comuni comincino a concedere meno ore giustificandosi con la mancanza di risorse economiche. A questo punto si aprono due strade: le famiglie interessate potranno ricorrere al Tar, sperando che il collegio che adiranno sia dotato di maggior sensibilità o – volendo essere più incisivi – sperando che conosca meglio la giurisprudenza costituzionale rilevante e adotti quindi una interpretazione costituzionalmente adeguata del d.lgs. n. 66 del 2017 o, eventualmente, sollevi la questione di fronte alla Corte costituzionale. Una seconda strada, di carattere politico, presupporrebbe un intervento del legislatore, che potrebbe decidere di modificare il decreto legislativo 66 del 2017, nella parte in cui sancisce che i Comuni hanno il dovere di assicurare gli interventi per l’assistenza scolastica, incluse le assegnazioni del personale, nei limiti delle risorse disponibili. Un legislatore illuminato potrebbe cancellare con un tratto di penna l’inciso sulle risorse evitando così il ripetersi di situazioni come quelle affrontate dalla decisione in commento.

Nella sentenza viene nominato l’ “accomodamento ragionevole” citato dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Si tratta di un’interpretazione errata?

L’ “accomodamento ragionevole” viene individuato dalla Convenzione facendo riferimento alle misure che non richiedono oneri finanziari sproporzionati. Tutto sta a cosa intendiamo per onere finanziario sproporzionato. Se io sono un piccolissimo imprenditore, che ha solo un dipendente che incorre in un incidente e si trova all’improvviso a convivere con una disabilità sopravvenuta, per me potrebbe essere sproporzionato dover riconfigurare tutta l’impostazione organizzativa della mia azienda, perché rischierei di chiudere. Lo stesso discorso evidentemente non vale per una multinazionale, con migliaia di dipendenti e risorse particolarmente importanti. Un discorso analogo potrebbe in parte valere per gli Enti locali. Facciamo uno sforzo e, tralasciando anche i problemi legati ad una diseguale garanzia del diritto allo studio sul territorio nazionale, ipotizziamo che nell’ambito di alcuni Comuni non vi sia, nella disponibilità complessiva di bilancio, spazio per garantire le ore di assistenza scolastica necessarie o che l’impiego di queste risorse metta a rischio lo svolgimento di altre funzioni fondamentali. Mi sembra improbabile, ma diamo per possibile questa ipotesi: ebbene, a questo punto per capire se l’onere finanziario è davvero sproporzionato (e dunque se va oltre l’accomodamento ragionevole) occorrerebbero dati effettivi che lo dimostrino.

Nella sentenza in commento, invece, il Consiglio di Stato non ha voluto condurre in alcun modo una analisi quantitativa sui dati, ma si è limitato a svolgere osservazioni di carattere generale e, a mio avviso, troppo generiche. In questo modo, l’accomodamento ragionevole è diventato il grimaldello per giustificare la mancata garanzia del diritto allo studio. Il che, evidentemente, è un paradosso inaccettabile.

Foto di Taylor Flowe su Unsplash


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