Welfare

Il diamante sfuggito a Di Caprio

Porti franchi: porti off shore nel cuore dell’Europa dove transitano migliaia di pietre preziose grezze ed escono senza più traccia della loro origine

di Irene Amodei

Nessuno sospetta che una nazione senza sbocco sul mare possa avere dei porti. Sarà per questo che sono pochi a interessarsi ai Porti franchi di Ginevra e Zurigo. Eppure Leonardo di Caprio, prima di girare Blood Diamond avrebbe fatto bene a farci un salto. Perché senza questi ?porti di terraferma? la ricostruzione del contrabbando internazionale di diamanti insanguinati che alimentano le guerre e le guerriglie del continente nero non è completa.

Siamo al numero 6 di Rue du Grand Lancy, La Praille, zona industriale di Ginevra. In un imponente palazzone di quattro piani ha sede la Società anonima dei porti franchi e depositi di Ginevra. Sulla sinistra, 140mila metri quadri di magazzini, casseforti, container, cantine, uffici. Una vera e propria base off shore nel bel mezzo dell?Europa da cui ogni anno transitano indisturbati diamanti grezzi per un valore che supera i 2 miliardi di euro.

Districare la fitta rete di agenzie intermediarie abitualmente incaricate di seguire le formalità doganali e vigilare sulle operazioni di import-export per conto di clienti, nella totalità dei casi protetti dalla più assoluta discrezione, è impresa ardua. Sarà per questo che Di Caprio s?è tenuto alla larga.

In base all?articolo 42 della legge federale sulle dogane, il Porto franco è una zona extraterritoriale in cui le merci, diamanti inclusi, possono essere stoccate indefinitamente, disimballate, divise, riconfezionate e spedite a piacimento, sfuggendo di fatto a qualsiasi ispezione. No man?s land. Il diamante che passa per il Porto franco acquista una sorta di «passaporto svizzero» perdendo di fatto la memoria: i documenti primitivi che ne attestano la provenienza vengono annullati e nuovi colli contenenti diamanti di diversa origine ripartono oltre confine. Nessuno si domanderà più da dove arrivano.

L?esistenza di simili «oasi» sovra o extra doganali ha sollevato nel tempo più di un?obiezione. Qual è, di fronte ai Porti franchi, l?efficacia del sistema di certificazione e controllo di gemme grezze noto come Processo di Kimberley approvato nel gennaio del 2003 dal World Diamond Council e da circa 71 governi per ostacolare la vendita dei diamanti estratti in zone di guerra?

«Tanto l?ingresso quanto l?uscita dei diamanti grezzi dai depositi è strettamente vincolata alla presentazione di un certificato d?origine, numerato e debitamente rilasciato dalla Segreteria di Stato (Seco)» spiega Yves Bonnier, direttore della Valimpex S.A.

Eppure a Berna i funzionari dell?Amministrazione federale delle dogane, che avrebbero il potere di sequestrare eventuali lotti di diamanti non in regola, ammettono che i controlli sono in realtà «assai sporadici» e non si rilevano anomalie dal 2003. Il fatto è che se un occhio al numero di Kimberley è ormai routine, assai più rara è invece la verifica che il peso in carati dichiarato sul certificato corrisponda effettivamente a quello del collo in uscita.

Insomma, spesso i conti non tornano. «Nel 2004 e 2005», spiega il giornalista Gilles Labarthe che sul transito di diamanti nei Porti franchi ha recentemente svolto un?indagine approfondita, «a parità di carati, il valore dei diamanti grezzi dichiarati all?ingresso dei porti franchi è inspiegabilmente raddoppiato all?uscita, passando da 880 milioni di dollari a 1,6 miliardi nel 2004 e da 1,5 miliardi a 2,2 miliardi nel 2005».


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