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Il dialogo israelo-palestinese? «Ai minimi storici»

Rientrata in Italia la delegazione della Tavola della pace, composta da esponenti politici e della società civile, in visita a persone e luoghi del conflitto mediorientale. Intervista ad Annalisa Caron, che vi ha partecipato come referente per Iscos-Cisl Brianza

di Daniele Biella

“L’impotenza è al massimo: nessuna delle due parti dialoga con l'altra, ti rendi conto che la complessità della situazione è arrivata a livelli mai raggiunti prima d’ora”. Annalisa Caron, 38 anni, è appena tornata da una settimana intensa tra Israele e Territori palestinesi, assieme ad altre 200 persone tra cittadini, sindaci e assessori locali: l’occasione era il compiere una simbolica Marcia pacifica (a organizzare il viaggio, in cui ognuno pagava le proprie spese, è stata della Tavola della pace e il Coordinamento enti locali per la pace) tra i luoghi e le esperienze più significative del conflitto israelo-palestinese, che dura da oltre 60 anni e non vede alcuna luce in fondo al tunnel. Caron è partita come referente per Iscos, l’organizzazione di cooperazione internazionale della Cisl, in particolare la sezione Brianza (lei lavora a Monza nell’Ufficio stranieri).

E’ stato un viaggio con un bilancio negativo, quindi?
E’ la prima volta che vedo con i miei occhi luoghi di cui tanto si sente parlare: Hebron, Tel Aviv, Jaffa, Gerusalemme, Betlemme…Di sicuro è un esperienza forte, che vale la pena, perché recarsi di persona è tutta un’altra cosa, e in missione di pace ha un notevole valore aggiunto. Detto questo, è dura però constatare che il leit motiv di tutto il viaggio è stato il riscontrare un deterioramento nel dialogo tra le parti in conflitto. A differenza della prima Marcia di tre anni fa, questa volta non si sono riusciti a creare momenti comuni ufficiali, soprattutto perché i palestinesi oggi non sembrano volersi più sedersi a un tavolo con israeliani. Continuano le relazioni personali di amicizia, ma a livello di contatti per risolvere i problemi la situazione non è positiva, non me l’aspettavo così tanto.

Quali motivazioni possono esserci per una tale sfiducia?
Dal punto di vista palestinese, quello che abbiamo più avuto modo di approfondire, è il rendersi conto che l’attuale politica israeliana entra si spinge molto più in là di prima, e va a toccare anche situazioni delicate per gli abitanti dei territori, legate al sostentamento: un esempio è la raccolta degli olivi, messa sempre più in difficoltà dalla confisca delle terre da parte del governo israeliano e dall’avanzare degli insediamenti dei coloni.

Avete visitato anche Sderot, la cittadina israeliana che confina con la Striscia di Gaza, dove quasi ogni giorno suonano allarmi di possibili razzi artigianali lanciati dai movimenti integralisti islamici. Quali impressioni?
È stato uno dei luoghi più significativi del viaggio. L’averlo visto accompagnati da Nomika Zion, attivista israeliana fondatrice del movimento Other voice, che vive in un kibbutz cittadino, ci ha fatto capire la complessa realtà della questione. Lei che si è schierata pubblicamente contro il proprio Governo in occasione dell’Operazione piombo fuso del 2008 ha un occhio di certo diverso dalla maggior parte degli israeliani, eppure vive come gli altri una situazione davvero difficile, sempre in tensione a causa degli allarmi per i missili. È in atto una guerra di nervi in cui a pagarne sono gli abitanti, ma per lei come altri la soluzione non è nell’andare contro Hamas, la principale forza politica della Striscia, piuttosto cercarne il dialogo con le anime più moderate.

Quale messaggio può riportare in Italia la delegazione della Tavola della pace?
Bisogna stimolare la comunità internazionale, in primo luogo l'Unione europea, a rendersi conto che il tema va affrontato in profondità e più di quanto si stia già facendo ora. È vero, Siria e Iran sono due situazioni molto più calde di Israele e Palestina, ma il conflitto latente in atto nei Territori sta lacerando migliaia di persone. Le parti oggi non si parlano, ma ci sono fiori nel deserto a cui andrebbe concessa una chance: oltre alle tante associazioni israelo-palestinesi che già da tempo denunciano la situazione, sta crescendo una generazione di giovani palestinesi che anziché lamentarsi si rimbocca le maniche: un esempio sono buona parte degli studenti dell’Università di Gerusalemme est, un gruppo dei quali ci ha portato in giro per la città e ha idee molto interessanti sul proprio futuro, a cominciare da una visione del ‘diritto al ritorno’ nelle loro terre (quelle antecedenti alla nakba del 1948, anno di nascita dello Stato di Israele che ha sancito l’esodo di massa dei palestinesi dai villaggi in cui abitavano, ndr) diversa dai propri genitori, con un occhio realista alla situazione attuale. Manteniamo viva l’attenzione su quanto sta accadendo in quei luoghi, così importanti per tutto il mondo.

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