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Il detto “Non sparare sulla Croce rossa”? E’ morto

In un giorno solo uccisi tre operatori del Movimento internazionale di Croce e Mezzaluna rossa: in Siria, Yemen e Mali. Il portavoce per il Medioriente Tommaso Della Longa: "Viviamo in un'epoca pesantissima, in cui nemmeno il diritto internazionale umanitario viene rispettato"

di Daniele Biella

Tre operatori del Movimento internazionale di Croce rossa e Mezzaluna rossa  uccisi in un solo giorno: lunedì 30 marzo un volontario siriano, uno yemenita e un maliano sono stati uccisi da armi da fuoco nei rispettivi paesi in guerra. “Un bollettino davvero pesante, insostenibile. Oramai dobbiamo ammettere che non vale più il famoso detto ‘Non si spara sulla croce rossa’, con il quale per decenni abbiamo potuto svolgere il nostro lavoro anche nei campi di battaglia più duri”, indica Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione internazionale delle Società di Croce rossa e Mezzaluna rossa (Ifrc) per la zona mediorientale, che Vita.it ha raggiunto nella sede di Beirut.

Nei 4 anni di conflitto siriano sono morti 48 operatori, un numero spropositato e senza eguali nella storia: una mancanza di rispetto per il lavoro di Croce e Mezzaluna rossa ma anche un attacco deliberato alla popolazione civile, dato che i nostri volontari in prevalenza sono membri delle comunità locali”, continua Della Longa. La Siria, d’altronde, è oggi il buco nero dell’umanità, con almeno 200mila morti, 7,8 milioni di sfollati interni e 4 milioni all’estero, e il triste numero record di 12,2 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria (a cui si aggiunge la denuncia odierna dell’ong Save the children che parla di 3 milioni di bambini che non vanno più a scuola, ovvero la stragrande maggioranza). In Siria come altrove, i membri della Federazione sono gli ultimi a lasciare il terreno – a livello mondiale negli ultimi anni è successo solo per qualche settimana proprio nel pese mediorientale, durante l’assedio di Kobane – e “spesso sono un punto anche per l’Onu: in Siria il 60 per cento del loro materiale è introdotto da nostri mezzi”, sottolinea il portavoce della Ifrc. “Stiamo parlando di un luogo in cui operare è sempre è più difficile: i check point cambiano in continuazione, ogni fazione ha i propri e accordi per far passare i convogli presi il giorno prima possono saltare anche all’ultimo minuto”.

La vittima siriana della Mezzaluna rossa è stata uccisa nel campo profughi sirio-palestinese di Yarmouk, nei pressi di Damasco, da fuoco di origine non certa. “Sta di fatto che quel luogo è oggi uno dei peggiori al mondo per condizioni di vita”, prosegue Della Longa, “nessuno esce e nessuno entra, e non è un eccesso dire che i bambini mangiano i fili d’erba e cani e gatti non se ne vedono più per le strade: è  una situazione di emergenza umanitaria pazzesca”. La Federazione ha pubblicato di recente una serie di report sulla Siria concentrati sulle figure femminili che stanno affrontando la durezza della guerra con una resilienza incredibile, continuando a lavorare, crescere i figli e sperare in un contesto più che deteriorato: “Attraverso le storie di queste donne, sia in Sira che rifugiate altrove, Europa compresa, cerchiamo di far capire che dietro questi grandi e tragici numeri ci sono altrettante storie di persone, ognuna diversa dall’altra”. A questo link il sito internet dove, in inglese, sono raccolte le vicende delle protagoniste. “Storie positive per focalizzare l’attenzione su come una popolazione che era benestante, come quella siriana, oltre a vivere un trauma psicologico enorme per il precipitare delle condizioni di vita, può ancora presentare storie positive, anche se con il passare del tempo è sempre più difficile”, illustra Della Longa. Croce e Mezzaluna rossa raggiungono oggi 3,5 abitanti della Siria in guerra, e sono presenti anche a Raqqa, prima città a essere annessa al Califfato dei fondamentalisti dell’Isis. “Servirebbe un’attenzione molto più concreta da parte della comunità internazionale, stiamo parlando di un territorio talmente distrutto che se smettesse ora la  guerra verrebbe riportato a condizioni vivibili in non meno di 15 anni, figuriamo quando invece avverrà, dato che il conflitto in atto sembra non avere vie d’uscita né a medio né a lungo termine”.

 

Nota: La foto di apertura è di Ibrahim Malla – IFRC

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