Famiglia

Il destino viene da est

Tornatore tratteggia con toni decisi personaggi soli, la cui condizione non pone via d’uscita. La regia affascina e il film è vicino alla perfezione

di Maurizio Regosa

È inquietante l?ultimo, riuscito, film di Giuseppe Tornatore, vincitore del premio per la migliore anteprima all?appena concluso Festival di Roma. Descrive un?Italia che non ci piace, che non vorremmo conoscere e che tuttavia esiste. È il Belpaese che sfrutta, come può, i migranti. Estorcendo loro una percentuale sullo stipendio (dopo averli aiutati a trovare il lavoro). Offrendo ?protezione? dai pericoli del marciapiede in cambio di tanti, troppi favori.

Certo, nei film si deve esagerare un po? e alla protagonista, che viene dall?Ucraina (la bravissima Kseniya Rappoport), veramente capitano tutte: costretta a prostituirsi e a ?vendere? i figli concepiti durante rapporti mercenari, Irena riesce a fuggire dai suoi schiavisti e si mette alla ricerca dell?ultima neonata. Si ritrova così in un provinciale e molto per bene centro del Nord-Est, riesce a farsi assumere dalla famiglia Adacher e a stare così vicina alla piccola Tea. L?illusione è quella di ricominciare, di potersi accucciare silenziosamente accanto a quella che lei crede sua figlia.

Ovviamente il destino dispone altrimenti e quel che pareva un luogo sicuro si rivela a sua volta una palude in cui è facilissimo sprofondare poco a poco?
Tornato nelle sale dopo anni di assenza, Tornatore recupera le atmosfere tenebrose e fosche di Una pura formalità (migliorandone l?efficacia) e costruisce un thriller assai serrato, molto ben interpretato (Piera degli Esposti è come al solito brava, ma anche Claudia Gerini si difende assai bene), con passaggi veramente straordinari sia a livello di sceneggiatura che di messa in scena.

Non mi riferisco tanto al montaggio, che fragorosamente ogni tanto inserisce lacerti dolorosi e drammatici del passato di Irena (un vecchio trucco nobilitato e meglio utilizzato a suo tempo da Pinter-Losey), né alle immagini eccessive, visionarie che punteggiano la pellicola (quel denaro che scivola dal soffitto sembra un po? fuorviante, ad esempio). Mi riferisco soprattutto a quelle scene meno appariscenti ma fortissime. Quelle in cui gli stati d?animo si proiettano sul contesto domestico o urbano, oppure quelle in cui il mistero si sovrappone a un gesto, a uno sguardo: danno perfettamente il senso della solitudine e della desolazione interiore della sconosciuta. Passaggi che restano nella memoria, discretamente ed efficacemente, e che servono a ben delineare il ritratto di questa donna tenace e volitiva, a volte ambigua, capace di resistere a mille prove, di sprofondare in un tunnel e di uscirne, in piedi e sempre pronta a ricominciare a lottare.

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