Non profit
Il destino dei volontari
Stato e mercato sono concordi nel mettere fuori gioco lesperienza del dono e della gratuità.
Sono del tutto d?accordo con la riflessione di Stefano Zamagni proposta sullo scorso numero di Vita. Il Volontariato oggi rischia, e rischia grosso. C?era in fondo da aspettarselo: nato quasi ?clandestinamente? tra gli interstizi di una socialità insidiata dai due ?signori della guerra? del Novecento, lo Stato e il Mercato, affermatosi e sopravvissuto grazie anche alla sua capacità di muoversi ?sotto traccia?, silenziosamente anche se fattivamente, tra i clamori del ?secolo breve?, era inevitabile che ora, venuto per così dire alla ribalta, emerso agli onori della cronaca dopo il fallimento di tante altre ?vie?, subisse il ritorno prepotente (la ?vendetta?) di entrambi gli ex monopolisti dell?azione pubblica: le due retoriche simmetriche, appunto, di Stato e Mercato.
Alla retorica dello Stato appartiene infatti, per intero, l?argomento di chi contrappone all??ingenuità? e all??immaturità? del volontario la presunta maturità politica e civile del ?cittadino solidale?, sciogliendo nelle pratiche un po? rituali della democrazia formale la densità operosa della cittadinanza attiva. Così come alla retorica del Mercato appartiene la pedagogia bocconiana che assumendo la forma-impresa come condizione universale dell?essere, relega l?agire volontario, con la sua gratuità, allo stadio infantile dell?imprenditorialità da superare velocemente verso la dimensione ?matura? dell?utilità monetizzabile. Per i primi, senza Potere «non si è».
Secondo la retorica dello Stato, senza Potere «non si è». Secondo la retorica del Mercato, «non si è» senza Ricchezza. In entrambe i casi, i vecchi miti della Potenza mobilitati, a mio avviso fuori tempo – in forma anacronistica dopo che i deliri della potenza hanno devastato il mondo -, contro la dichiarata ?debolezza? della figura del Volontario, votata per vocazione e per essenza alla relazionalità, alla reciprocità e alla logica del dono. A quella terza sfera, cioè, che già Carl Polanyi aveva individuato tra le logiche contrapposte dell?autorità (statale) e dell?utilità (mercantile), schiacciata e umiliata dalla modernità perversa del Novecento ma da sempre essenziale per garantire quella coesione sociale, quella forma apparentemente spontanea di ?legame? senza la quale nessuna società sta insieme, nessun mercato funziona e nessuno Stato si regge.
Il doppio attacco
In questo senso, il destino del volontariato, la sua capacità di sopravvivere a questo doppio attacco, di darsi ragioni coscienti e all?altezza dei tempi per proteggere la propria autonomia e specificità, è un indicatore fondamentale del grado di innovazione delle nostre società: misura concretamente le possibilità reali che abbiamo di uscire davvero dal secolo della violenza e di entrare in uno stadio diverso, meno feroce, meno distruttivo, di sviluppo umano (umano, sottolineo, non economico o politico).
Questo per quanto riguarda i grandi scenari disegnati da Zamagni. A cui aggiungerei due aspetti più contingenti, per così dire di carattere più particolare, che possono spiegare le ragioni di una crisi del volontariato che voglio continuare a considerare ?crisi di crescita?.
Il primo, segnalato nei servizi dedicati da Vita al problema (in particolare in quello di Enrico Finzi), riguarda il male che ha fatto all?immagine del volontariato (e anche alla sua pratica) lo scandalo Arcobaleno. Non solo i suoi aspetti ?criminali?, le denunce di corruzione, malversazione, illegalità, aggiungerei, ma la natura stessa di quella ?operazione?: la commistione empia tra macchina militare e macchina solidale; l?uso della generosità e dei buoni sentimenti nel quadro di un?azione bellica discutibile e discussa; l?assorbimento dei ?volontari? dentro un apparato che dell?etica del volontariato è l?esatta negazione.
è stato, quello, a mio avviso, l?esempio limite di una pratica (qualcosa di più di un tentativo, un abbozzo di ?sistema?) che si è andata diffondendo negli ultimi anni e che ha come oggetto la trasformazione del volontariato in una risorsa resa disponibile per le diverse amministrazioni pubbliche: uno ?strumento?, un ?mezzo operativo? a buon mercato di cui gli amministratori pubblici, soprattutto gli enti locali (ma nel caso della Missione Arcobaleno anche quelli nazionali) possono servirsi per pratiche del tutto estranee e talvolta opposte all?etica del volontariato stesso (la riorganizzazione dello Stato sociale orientata al fine prioritario dell?abbassamento dei costi, l?esternalizzazione di funzioni e di servizi prima organicamente afferenti all?ente pubblico secondo il medesimo modello di outsourcing che guida la ristrutturazione industriale, la formazione di un secondo mercato del lavoro nel campo dei servizi alle persone, meno garantito e più motivato, ecc.).
Un meccanismo che trasformerebbe, se portato alle estreme conseguenze, la folla variopinta dei volontari in un crescente esercito di parastatali di seconda fascia, mal garantiti e ancor peggio pagati, certo inquadrati in una rete a maglie strette di ?imprese sociali? ognuna con i suoi conti ?profitti e perdite? ma disperatamente priva di vocazione e di idealità. è una delle forme con cui appunto la Politica (lo Stato nelle sue diverse articolazioni) tenta di rimettere le mani su questa forma di socialità che aveva perduto.
I giovani nella morsa
La seconda questione riguarda la questione del tempo e del lavoro. Vita denuncia un calo di partecipazione tra i giovani. Non so se ovunque è così, o se il quadro non sia molto a macchia di leopardo, con cadute ma anche con significative ascese. Certo il problema esiste, e in buona misura è questione di mentalità, di valori, o meglio di disvalori, diffusi, tanto più rampanti quanto più sostenuti dall?ondata globale neoliberista e dai venti di guerra: egoismo, competitività estrema, rifiuto o disinteresse per l?Altro.
Ma accanto a questo, di cui non nego l?importanza, c?è un aspetto che un tempo avremmo definito strutturale: c?è la questione della forma del lavoro in questa transizione che chiamiamo post fordista. La sua rarefazione e precarizzazione, da una parte, ma anche la sua crescente invasività. La sua, pronuncio la parola maledetta, crescente flessibilità, che non significa solo, e non tanto, multiattività, nomadismo, variabilità. Significa anche penetrazione del tempo di lavoro nel tempo di vita. Significa messa al lavoro di ciò che fino a ieri era intoccabile: l?affettività, le relazioni interpersonali, le emozioni, i linguaggi.
Oggi, soprattutto per i giovani, la dimensione del lavoro si protende nella vita, la colonizza (tanto più violentamente quanto più il lavoro è raro). Obbliga a una mobilitazione pressoché permanente, ad accettare orari, occasioni, condizioni sempre variabili e stressanti. Obbliga a lavorare anche quando si è disoccupati, nella ricerca, nell?afferrare ogni occasione possibile, nel rincorrere una preparazione sempre insufficiente. Cancella la differenza tra tempo di lavoro e tempo libero.
è possibile, nell?epoca della flessibilizzazione radicale del lavoro, il ?fare volontario?? Vorrei che riflettessimo su questo: difendere il volontariato non significa, oggi, anche difendere gli uomini da un lavoro troppo pervasivo nelle loro vite? Non significa difendersi da un lavoro fattosi tanto flessibile da penetrare anche negli interstizi delle nostre vite e bruciare il tempo che vorremmo dedicare agli altri?
Il ?dono? di cui parliamo quando interpretiamo il volontariato è in primo luogo ?dono di tempo?. Doniamo una parte del nostro tempo di vita agli altri. Che succede se quella grande ?impresa sociale? che è diventata la nostra società pretende il monopolio del nostro tempo? Che ne è del principio, pur sacrosanto, di ?sussidiarietà?, vorrei discuterne con Giorgio Vittadini, in un mondo in cui buona parte della nostra vita è divorata dagli imperativi di un?attività lavorativa sempre più difficile da delimitare e da controllare?
Il lavoro 24 x 7
Come evitare il ?subsidium? di un qualche organo ?superiore? se la mia vita mi è sottratta, se il tempo mi manca, se devo correre 24 X 7 (come recitano ormai molte promozioni di supermercati o di servizi: ventiquattr?ore al giorno per sette giorni) per riprodurre la mia (mia personale, nemmeno quella dei miei familiari in una situazione in cui un salario solo in famiglia non basta) esistenza?
Il post fordismo, che era stato il contesto nel quale il volontariato è stato posto al centro della vita sociale, rischia di diventare la tomba del volontariato, per la sua voracità di tempo, per la sua ?fame di vita? (per il suo bisogno di mettere la vita, tutta la vita, al lavoro e al proprio servizio). Sarebbe, appunto, la vittoria postuma dell?economia (e dei suoi egoismi) sulla socialità solidale. Non so come rispondere a tutto ciò: con la riduzione dell?orario di lavoro? Con l?istituzione di un reddito sociale garantito? Con la formazione di agenzie pubbliche per la regolazione del nuovo mercato del lavoro? Con una battaglia culturale contro l?onnipervasività della dimensione profit del lavoro? Non lo so, ma vorrei che la discussione proseguisse, perché ho l?impressione che dalle risposte che sapremo dare non dipenda solo il destino del volontariato, ma anche quello della nostra società nel suo complesso.
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