Cultura

Il declino, questione di dislivelli gentili

di Maria Laura Conte

Più che paura, provoca irritazione con senso di sconfitta, perché fa scivolare in basso, verso una direzione non chiara e non voluta. Sa di decrepito, perciò lo vorremmo scansare, fargli invertire la direzione di marcia, oppure lasciarlo volentieri agli altri, ai nemici. Vorremmo opporgli resistenza, non essere risucchiati dalla sua forza di gravità, e camminare leggeri come Armstrong sulla Luna.

È il Declino: tre sillabe che, in questi mesi più del consueto, ricorrono in titoli e cronache di economia e società. Il motore dell’epidemia globale, girando vorticosamente, avrebbe accelerato il declino della globalizzazione che sembrava inarrestabile, della mobilità internazionale, delle grandi città, del capitalismo, perfino della chiesa italiana, almeno secondo quelli che furono i paladini della sua rilevanza.

E poi c'è quello tanto irriverente quanto insopportabile, il declino personale: del passo che si fa incerto, dell’intelligenza che perde in scatto brillante, della pelle del viso che avvizzisce (il marketing degli antirughe si gioca tutto sull’illusione del contrasto al declino, ed è fiorente come mai), della memoria (“dove ho messo gli occhiali? E come si chiamava quello?”).

Ma che zavorre appesantiscono questa parola? Che nervi scoperti tocca?

Perché la sua origine latina sapeva di dolcezza. Il verbo de-clinare nella sua forma transitiva significa scostare, allontanare: ex illo declinavit lumina, si legge in Catullo, “staccò gli occhi da lui”, e chi legge immagina la fuga da uno sguardo fascinoso quindi pericoloso.

Per Terenzio vuol dire distinguersi, ed ha qualcosa di nobile: declinata ab aliarum ingenio, osserva il poeta della donna che si distingue dall’istinto delle altre, mentre Cicerone lo usa per descrivere chi schiva i colpi, declinat impetum, e si mette in salvo.

Significato che torna nella forma intransitiva che si traduce con scostarsi, allontanarsi: declinare a malis, star lontano dai mali, è ancora di Cicerone.

Perciò quello spessore di decadenza e di negativo che gli attribuiamo oggi sembra arrivato dopo, a scapito di quella patina di eleganza rimasta solo in certi usi, come “declinare un invito”, che immortala il gesto di chi lascia scivolare un cartoncino nel cestino, ma senza fastidio.

È a questa svolta che declino diventa espressione del precipitare sempre più giù. Inesorabilmente soprattutto se si prova a resistergli ciecamente. Quando ci si getta contro, in un corpo a corpo individualista, anziché indagarne le ragioni a monte, o lavorare di squadra per risalire la china, per individuare alternative o cercare un senso, non solo non si riesce a invertire la tendenza della decadenza, ma quasi la si velocizza.

Il declino diventa ostile quando perde ogni molecola di possibilità della sua originaria “distinzione”, cioè la spinta a uscire dal gregge per battere nuovi sentieri, per vedere le cose da una prospettiva nuova.

In questo viene in soccorso un’altra parola-chiave, spesso banalizzata da un uso insulso. L’ha rilanciata a sorpresa Francesco nella sua enciclica recente ed è gentilezza.

Quando si intuisce l’approssimarsi del declino la reazione prevalente invita al “si salvi chi può”, che ha come compagna d’armi preferita l’aggressività. Mentre c’è un altro fronte di combattimento possibile, ed è quello di chi è gentile, appunto, e sa sostenere e confortare. Di chi si fa disponibile a portare i pesi altrui con tratti lievi, con un parlare che non ferisce né disprezza mai, piuttosto lenisce ed edifica. Verso l’alto.

Gentile è chi sa dire “grazie” e “scusa” non perché è più buono degli altri, ma perché si prende il tempo per spendere queste parole, perché non va così di fretta da non vedere chi ha accanto. Come se poi essere sbrigativi aiutasse ad arrestare la discesa.

L’avevamo scambiata per una pratica borghese, finta e affettata, invece la gentilezza è semplicemente umana.

Quando si fa cultura, è una mina, ha carica trasformativa, muta i rapporti sociali in tanto quanto favorisce la cura e l’accoglienza reciproche, quindi la compagnia. L’altro così diventa alleato e (insieme) il declino affrontabile. Perché si intuisce che è solo questione di passaggio, come in montagna i dislivelli, ai quali occorre adattare il passo per poi riprendere con ritmo la salita e arrivare in vetta.

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