Allo scadere degli anni zero è iniziato il declino della stakeholder theory applicata all’impresa sociale? E’ un pronostico da previsorio. In effetti s’ode qualche scricchiolio nella poderosa impalcatura teorica – e annesse applicazioni pratiche – che ha retto lo sviluppo degli ultimi quindici anni. Fare l’impresa sociale multi-stakeholder, coinvolgendo lavoratori, volontari, utenti, comunità, ecc. è complicato e i benefici ben esplicitati nei documenti di dichiarato (mission, statuti, carte dei servizi) faticano materializzarsi in quelli dell’agito (budget, investimenti, bilanci sociali). Il crogiolo di interessi che sostiene in modo non solo efficace ma anche efficiente progetti d’impresa sociale sembra prerogativa di esperienze eccellenti non facilmente trasferibili o di fasi irripetibili nel ciclo di vita dell’organizzazione. Le contromisure? Qualcuno ha preso la strada opposta, semplificando lo spettro degli interessi e individuando uno stakeholder dominante. Altri preferiscono un approccio multi-stakeholder soft che crea coalizioni temporanee su obiettivi definiti e di breve periodo dove è più facile far convergere interessi, aspettative, risorse. E alla fine un salutare “sciogliete le righe”, sapendo che, nel caso, il fuoco cova sotto la cenere e può essere facilmente riattizzato. Al di là delle scelte, c’è però un equivoco di fondo che caratterizza l’engagement degli stakeholder in attività di imprenditoria sociale. Ovvero che il tutto avvenga in maniera quasi meccanica, attraverso adattamenti reciproci autoregolati o quasi. Ma è proprio il prevalere di questa prospettiva a generare gli elementi di difficoltà e sfiducia ricordati in precedenza e a confrontarsi con una realtà fatta di tempi lunghi e dolorose retromarce perché gli interessi non sono esplicitati, non fanno riferimento a gruppi sociali omogenei e quando ci sono sono spesso parziali e volubili. Traditrici sono, in tal senso, anche alcune metodologie di rilevazione, in primis le analisi di costumer satisfatcion, che danno per scontata la presenza di stakeholder con gli interessi predefiniti e che quindi sono razionalmente in grado di valutare, intervenire, partecipare. Se si sgombra il campo da questa paccottaglia spesso male importata da tecniche di marketing ormai in disuso anche nelle imprese for profit emerge (o riemerge) il management degli interessi, ovvero il lavoro di empowerment di chi svolge un ruolo di trascinamento degli attori mischiando visioning, consapevolezza, motivazioni di valore e, perché no, elementi differenziali di ricavo. Non quindi un gioco ad incastri che presuppone soprattutto capacità di lettura e di mediazione di interessi espliciti, ma piuttosto una rielaborazione di feed-back formali ed esperienziali, antecedenti storici, variabili di contesto, vincoli di bilancio, cultura personale, ecc. In questo contesto di riflessività è il manager (o meglio il gruppo manageriale) che affronta la complessità chiedendosi non “cosa ci dicono i nostri utenti”, ma guardandosi allo specchio e interrgandosi su “cosa possiamo fare” per essi. Pare lo faccia anche Steve Jobs.
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