“Va meglio. Sì, sto migliorando. Certo, ci vuole pazienza, ma va meglio. Insomma, un po’ meglio. In che senso? Beh, i dolori diminuiscono, mi sto abituando a queste docce in resina, una per gamba. Come è successo? Adesso cerco di riassumere, sì. Insomma, stavo meglio prima (risatina di prammatica…). Ma passerà, chiaro, passerà.Pazienza, ora ci vuole tempo e pazienza. Quanto tempo? Mah, chi può dirlo. Due mesi, tre mesi. E nel frattempo? Niente, mi sto organizzando. Tornerò a casa, la prossima settimana. Assistenza domiciliare, un sollevatore per i passaggi dal letto alla carrozzina. Un aiuto, perché da solo non potrei proprio farcela… Sì, certo, però a casa è comunque un’altra cosa, si sa. Beh, insomma, non è semplice, ma almeno ci sono la mia compagna e il gatto,e poi ho tutto a portata di mano. Sì, certo, tanto io sono forte, non mi abbatto, e poi faccio tutto al computer, scrivo, leggo, lavoro… E’ una grande fortuna. Beh, forse fortuna non è proprio la parola più adatta… (altra risatina di prammatica). Sì sì, ne ho passate tante, d’altronde le ossa fragili le ho da sempre, mica balle, ci devo fare i conti… Grazie, comunque, teniamoci in contatto, sì, ti farò sapere, se ho bisogno di qualcosa te lo dico, certo, non ti preoccupare, non faccio complimenti, è che al momento, sinceramente, non mi annoio davvero, qui all’unità spinale il tempo vola…”. Clic.
Fine della telefonata tipo. Più o meno. Il cellulare tace. Mi osservo, qui, nel letto 14. Mi hanno appena deposto nel letto, utilizzando il sollevatore. Dovrò convivere con il sollevatore. Un aggeggio provvidenziale per le schiene degli infermieri e degli assistenti a domicilio, ma abbastanza inquietante per chi viene sollevato, ossia, in questo frangente, io. Un palo a rotelle, con un motore elettrico e un telecomando, che aziona una specie di paranco. Prima di provare l’ebbrezza del volo vieni imbragato con un telo robusto, azzurro, ampio e avvolgente. Non è facile passarlo sotto il sedere. Occorre maestria e sensibilità. Un po’ mi aiuto, un po’ lascio fare. Poi i tiranti del telo vengono agganciati al paranco e tu ti ritrovi incastrato, o meglio, infilato come un neonato che sta per essere portato in volo da una immaginaria cicogna. Non ci puoi fare niente, ti devi fidare. Ti devi affidare. Verifico soltanto che il telo passi bene al di sotto della doccia di resina che protegge le mie gambe appena fratturate. Le due infermiere sono attente e forse anche un po’ preoccupate, perché temono di farmi male, nel momento in cui, agendo sul telecomando, mi solleveranno verso l’alto, sottraendomi alla sicurezza tranquilla del sedile della carrozzina elettrica, e facendomi spostare a mezz’aria, a colpi di telecomando, fino a centrare, con precisione figlia dell’esperienza, il letto, al punto giusto, né troppo in basso né troppo in alto. In quelle poche decine di secondi ti senti avviluppato e pesante, protetto ma anche bloccato, del tutto incapace di qualsiasi parvenza di autonomia, ascolti il dolore di femore e tibia sperando che rimanga così, un sottofondo controllabile e ragionevole. Speri che il tutto avvenga il più rapidamente possibile, ma al tempo stesso ti auguri che l’operazione si svolga senza precipitazione, senza inciampi. Così avviene, e lentamente riacquisti la sensazione normale di gravità, mentre il corpo si adagia nel letto e si stende supino. Il telo viene sganciato e sfilato da mani svelte ed efficaci. E’ fatta. Sono di nuovo nel letto 14.
Ora mi spogliano, velocemente, parlando del più e del meno, commentando la giornata, un sorriso, una battuta, a stemperare la routine di un mestiere difficile, delicato, fondamentale. Ogni paziente è un corpo diverso. Il mio è particolarmente diverso. Io lo conosco, ci convivo. Ma chissà cosa vedono loro, quando osservano le mie gambette storte, la mia pancia ancora segnata da una lunga cicatrice dell’operazione di due anni fa. la mia schiena con una scoliosi degna di una chicane di formula 1. Il corpo nel letto di un ospedale ti appartiene a metà. L’altra metà è di chi ci lavora, di chi lo lava, lo controlla, lo medica, lo ispeziona. Il comune senso del pudore qui non ha alcun senso. Te ne fai una ragione subito, è una regola ovvia. La buona educazione reciproca aiuta a rendere le cose accettabili, talora persino divertenti.
Quando perdi la tua autonomia personale sei costretto ad esporre il tuo corpo, a prestarlo ad altri. E’ un momento di grande umiltà, in un certo senso reciproca. Specie quando vieni lavato, dappertutto, anche nelle parti intime, come è giusto. Penso che quella dell’operatore sanitario, dell’infermiere professionale, sia una delle professioni più dignitose e ammirevoli al mondo. Si può fare in tanti modi, con stili diversi. Ma alla fine occorre fare i conti con il corpo dei pazienti. Di là non si scappa.
Vorrei un corpo diverso, più semplice e funzionante. Non è così, devo convivere con il mio involucro, e perfino amarlo, nei limiti del possibile. La ricostruzione del fisico passa attraverso l’accettazione del limite, del disagio, del dolore, della paura del dolore. Poi passa, si dimentica, si rimuove. La normalità, fra qualche mese, mi riporterà in strada, in prima linea, indosserò una nuova corazza, e affronterò la vita a muso duro, ma pur sempre con un sorriso. Intanto vi racconto il percorso. Perché la vita è una strada, e i nostri fari illuminano fino alla prossima curva.
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