«Dobbiamo avere più coraggio nel fare lobbying. E capire che la sfida si gioca a livello culturale, politico, ma anche normativo». Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse, l’associazione delle oltre 440 Banche di credito cooperativo e Casse rurali, ha scandito bene questo concetto davanti alla platea attenta radunata per gli Stati generali di Cgm, il 21 e 22 marzo scorso a Milano. Con Vita accetta di approfondire il discorso: «Ho sottolineato il livello normativo, perché a volte non se ne considera la portata. Dico sempre che dobbiamo abituarci di più a lavorare a colpi di volgari emendamenti, in particolare a Bruxelles, dove oggi come oggi si prendono l’80% delle decisioni che riguardano il credito e il social business. E dobbiamo lavorare di più insieme». Gatti ne sa qualcosa: mentre ne parliamo, di domenica pomeriggio, sulla sua agenda è già fissato il volo dell’indomani per Bruxelles: «Abbiamo 52 dossier aperti da presidiare in Europa», sottolinea.
Riordinare lo scaffale
Per tornare in Italia, un esempio di cosa significhi il presidio normativo è la recente iniziativa, presa insieme a UBI Banca, per allargare il Fondo di garanzia per le pmi anche alle imprese non profit. Un’iniziativa significativa, in particolare perché presa da due istituti di credito che hanno sperimentato l’affidabilità della cooperazione sociale: i numeri delle sofferenze del comparto sono nettamente sotto la media delle altre imprese. Eppure a volte si ha la sensazione che la cooperazione sociale non abbia sufficiente consapevolezza che questa buona reputazione può tradursi anche in un’arma per chiedere e avere di più. Gatti non vuole entrare in casa d’altri, ma un punto lo sottolinea: «Bisognerebbe riordinare lo scaffale degli strumenti che sono a disposizione di chi vuole fare social business in Italia, strumenti che spesso sono scarsamente utilizzati. Faccio un esempio: Cooperfidi Italia, che oggi veicola il Fondo di garanzia di Fondazione con il Sud per venire incontro alle cooperative sociali meridionali che sono schiacciate dai ritardi dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni. Il fatto che sia sottoutilizzato rispetto alle potenzialità è segno di un certo deficit di cultura imprenditoriale». Gatti poi sottolinea un altro caso, quello della Compagnia finanziaria industriale. Uno strumento che attraverso la legge Sabatini mette a disposizione fondi pubblici per salvare aziende in crisi, assegnando la gestione a cooperative di lavoratori: «Sul caso Omsa, di cui si è tanto parlato, era uno veicolo che si sarebbe potuto usare».
Anche per il futuro bisogna essere pronti a sfide ben più decisive e se non si hanno idee chiare e tanta passione l’orientamento di Bruxelles sul social business finirà con il privilegiare un approccio in stile anglosassone. «Il rischio è uno sbilanciamento in direzione del business, confinando il sociale a pretesto o poco più». Per questo, dice Gatti, «occorre rischiare di più sul punto della rappresentanza di interessi».
In che modo? «Ad esempio presidiando il Cese dove già sta lavorando benissimo Giuseppe Guerini. Da parte nostra abbiamo dato suggerimenti per mettere a punto un modello decente di social business. In particolare sui profili finanziari è importante distinguere profili per l’impresa sociale, studiando il modo di renderli compatibili con i nuovi regolamenti europei del settore bancario».
Se un giorno una Asl…
Sul tavolo per esempio c’è la messa a punto degli strumenti di garanzia, di capitalizzazione e di debito. «Ci sono tante potenzialità», spiega Gatti. «Ma hanno bisogno di una cornice coerente a livello europeo. Penso al fatto che vada incoraggiato l’investimento di privati o dei portatori di interesse nelle imprese sociali. Poniamo ad esempio il caso di una Asl che vuole investire nello sviluppo di un consorzio che ha lavorato bene in quel territorio e che quindi viene visto come un valore su cui puntare. Se ritiene strategico fare questo investimento per il bene di quel territorio, deve poterlo fare».
Ma la vera sfida che accomuna il credito cooperativo e la cooperazione sociale è quella di intercettare una domanda che sta cambiando a grande velocità. «È il momento in cui occorre assolutamente innovare. E lo specifico cooperativo aiuta. Pur avendo come interlocutori mondi e problemi diversi, le dinamiche che ci attendono sono simili».
Proviamo a fare un esempio che riguarda le banche? Gatti: «Oggi c’è meno risparmio diffuso. C’è invece maggiore bisogno di una protezione dagli incidenti della vita, che possono riguardare la salute ma anche la perdita del lavoro. Aggiungo che ci sono domande da sollecitare, come quella della previdenza integrativa che stenta davvero a decollare. Ma è una questione decisiva che se vien sottovalutata oggi rischia davvero di compromettere il futuro dei territori. E tutto questo avviene non sui tavoli degli esperti ma agli sportelli. Per questo sottolineavo che la cultura cooperativa può essere un vantaggio competitivo in un contesto come quello di oggi».
E per la cooperazione sociale quali saranno le nuove domande da intercettare? «Basta dare uno sguardo a quel che cambierà con le riforme messe in campo, dalle pensioni a quella sul lavoro. Si apriranno spazi di mercato importanti. Per essere concreti: io penso che l’innalzamento dell’età di pensione creerà qualche problema nelle grandi aziende che avranno difficoltà a gestire persone ultrasessantenni che faticheranno a star dietro a processi di innovazione accelerati. La cooperazione sociale, con tutto il know how accumulato nell’inserimento lavorativo, potrebbe invece mettere a punto un modello in cui queste persone vengono trasformate in formatori, per far crescere vivai di giovani che sono poi un patrimonio per le stesse aziende. È un mercato che oggi non c’è, ma che potrebbe a breve aprire spazi grandi in cui ancora una volta il modello cooperativo parte avvantaggiato».
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