Cronache africane

Il Congo va a votare ma è una polveriera

Quasi 44 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne ieri nella Repubblica Democratica del Congo per quattro elezioni, la più importante delle quali è quella per scegliere chi nei prossimi 5 anni governerà il paese più strategico per le risorse minerarie dell'Africa. A causa del caos e di incidenti causati dalle denunce di frodi la votazione prosegue anche oggi. Ma a prescindere dal risultato, la pace nel paese è a rischio

di Paolo Manzo

Il voto di oggi in Congo. Credits: Monusco Photos

Ieri la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il secondo paese più grande del continente africano dopo l’Algeria, doveva scegliere il presidente, i legislatori, nazionali e regionali, e i consiglieri locali. Purtroppo il voto nella nazione centroafricana, impoverita anche se ricchissima di minerali, è stato segnato da enormi ritardi e dal caos. Parecchi seggi sono rimasti chiusi, senza che le persone potessero votare e la giornata elettorale è stata dunque estesa anche ad oggi. I maggiori ritardi si sono registrati nelle regioni di Goma, Bukavu, Beni, Lubumbashi e Tshikapa. I territori di Rutshuru e Masisi sono stati esclusi dal voto a causa dell’insurrezione dell’M23, il Movimento 23 marzo, un gruppo militare ribelle che opera principalmente nel Nord Kivu.

A Bukavu, nel Sud Kivu, elettori al seggio ieri sotto la protezione della MONUSCO (Credit: MONUSCO Photos)

Da ieri Kinshasa ha chiuso i confini con il Ruanda, adducendo preoccupazioni per la sicurezza. Personale armato è stato schierato ai principali valichi di frontiera e i voli all’aeroporto di Goma sono stati sospesi. Le tensioni tra i due paesi sono alle stelle dopo che la Rdc ha accusato il Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23, accuse che Kigali respinge.

Sono quasi 44 milioni le persone (su una popolazione di 100 milioni) chiamate ai seggi per le elezioni in corso, dove per le presidenziali si ricandida per un secondo mandato di 5 anni il 60enne presidente Felix Tshisekedi. Tutti lo chiamano Fatshi, un nomignolo che gli era stato affibbiato in Belgio, all’università. Lui è il favorito ma altri tre sui 19 in lizza hanno qualche chance.

Il primo è Moïse Katumbi, un miliardario ed ex governatore della turbolenta regione mineraria del Katanga. Suo padre è un italiano dell’isola greca di Rodi rifugiatosi in Congo tra le due guerre mondiali per sfuggire al fascismo. Sua madre è una principessa del gruppo etnico Bemba. «Moïse è un uomo d’affari che ha prosperato in un ambiente quasi mafioso. Schiaccia i concorrenti, è uno squalo», spiega a Liberation uno dei suoi ex collaboratori.

Il secondo candidato in lizza è Martin Fayulu, considerato da molti il vero vincitore delle elezioni del 2018. A detta dei più fu estromesso dalla presidenza dopo un accordo sotto banco tra l’ex presidente Joseph Kabila e Tshisekedi.

Il terzo è il preferito della società civile, ovvero Denis Mukwege, il medico chirurgo che nel 2018 ha ricevuto il Nobel per la Pace. Non ha un partito forte alle spalle né esperienza politica. Gode però di un enorme autorevolezza per la sua crociata per curare gratuitamente donne e ragazze violentate nelle zone di conflitto in Congo. E per denunciare al mondo i responsabili, siano essi ribelli o membri dell’esercito. Dopo vari tentativi di assassinio e rapimento, vive in isolamento nel suo ospedale, sorvegliato dai Caschi Blu dell’Onu.

Altissimi i rischi di brogli. Primo perché si vota solo questa settimana e vince chi ottiene più consensi. Ma soprattutto perché non sono stati ammessi né gli osservatori della Comunità dell’Africa orientale, l’Eac, né dell’Unione europea. Preoccupata per i brogli anche la Chiesa cattolica locale, ma anche per la fine della missione di stabilizzazione dell’Onu, la Monusco. 

A novembre è stato infatti firmato tra Nazioni Unite e Rdc un accordo entrato in vigore ieri per il ritiro da iniziarsi subito dopo il voto. «Il ritiro inizierà entro la fine del 2023, in pieno ciclo elettorale», si legge nel comunicato stampa diffuso poco fa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «La forza sarà ritirata dal Sud Kivu entro fine aprile 2024». Entro il 20 dicembre 2024 si prevede che tutte le forze della Monusco avranno lasciato la Repubblica Democratica del Congo. 

Non bastasse, il mese scorso Fatshi ha anche concluso il mandato della forza regionale della Comunità dell’Africa orientale. I contingenti dei paesi membri presenti sul territorio hanno tempo fino al 7 gennaio per lasciare la Rdc.

In questo preoccupante contesto di smobilitazione internazionale, il Congo rimane strategico per il mondo. Qui si estrae il 70% delle riserve globali del coltan usato nei telefonini. Inoltre, nella Rdc c’è il 50% del cobalto usato nelle batterie delle auto elettriche.

Assurdo che con tutte queste ricchezze, anche in ottica di passaggio ad una economia più verde, il 60% dei congolesi oggi sia povero. La spiegazione principale è, al solito, la guerra.

Oggi nella Rdc ci sono infatti un centinaio di gruppi armati e, dal 2021, i ribelli dell’M23 hanno ripreso le armi. Ciò ha reso l’accesso al Nord Kivu sempre più difficile e ha accentuato le tensioni con il Ruanda. L’M23 avrebbe massacrato, saccheggiato e stuprato comunità nella regione con il sostegno del Ruanda e del suo presidente Kagame, secondo i rapporti delle Nazioni Unite.

Accuse smentite da Kigali che afferma di non avere alcun interesse a sostenere l’M23. In particolare perché deve accogliere molti congolesi del Nord Kivu, come nel campo di transito di Nkamira, a una decina di chilometri da Rwerere, vicino al confine. Una smentita che sa di monito per Le Temps. Il campo accoglie attualmente 6.000 persone in attesa di un rifugio e «le conseguenze di una nuova guerra tra Kinshasa e Kigali sarebbero disastrose per i milioni di sfollati e rifugiati del conflitto» a detta del quotidiano elvetico. 

Secondo il rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite nella Rdc, Bintou Keita, «le tensioni regionali tra la Rdc e il Ruanda si sono intensificate con il ritorno dell’M23. Questo amplifica il rischio di uno scontro diretto che potrebbe interessare anche il Burundi», ha detto l’11 dicembre scorso davanti al Consiglio di Sicurezza. Aggiungendo che «Kigali voleva impadronirsi di una parte del Nord Kivu, molto ricca di cobalto. Negli ultimi anni, le intenzioni del presidente ruandese Kagame in alcune aree sono diventate sempre più chiare. E recentemente ha messo in discussione il confine». Uno scenario fosco, dunque, che va al di là del voto di questa settimana. 

«Quello che succede in Congo – spiega al quotidiano iberico La Vanguardia Kitanga Kizito, professore di filosofia nella città di Kasongo – non riguarda solo i suoi cittadini. Questo è il cuore dell’Africa e le sue ricchezze sono tante, tutte collegate a ciò che accade qui. Lo sfruttamento del coltan e del cobalto che forniscono i cellulari cinesi. Il disboscamento illegale di legno che viene poi trasformato in mobili europei. I diamanti e l’oro che vanno in Russia o negli Stati Uniti. Se il Congo prende fuoco, l’intera Africa brucerà e il mondo avrà come minimo le vesciche.» Vedremo che succede. Di certo c’è che Tshisekedi e la sua famiglia sono stati accusati di trarre profitto da accordi opachi con aziende cinesi per ottenere l’accesso a rame, cobalto e diamanti.

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