Non profit

Il cinema scende in piazza

Parlano due registi di Teheran: «Ahmadinejad non è il nostro presidente»

di Maurizio Regosa

Ieri nel Parlamento iraniano la cerimonia di insediamento: Mahmoud Ahmadinejad ha giurato «di fronte al Sacro Corano», inaugurando così il suo secondo mandato presidenziale. Fuori la disapprovazione di alcune centinaia di manifestanti. La situazione è però tutt’altro che pacificata. Sul web prosegue l’azione di chi contesta l’uso della forza da parte del governo, mentre fra gli uomini di cultura e gli intellettuali è diffusa la convinzione che «le proteste continueranno assolutamente. E in ogni caso non sarà mai come prima: è caduto un tabù», come afferma,  perentorio, Sharam Karimi. Accanto a lui, annuisce Mohammad Rasoulof. Nulla sarà più come prima. E non è questione della presidenza. Qualcosa fra il potere e il popolo si è rotto. E sarà difficile, forse impossibile ricucire quello strappo.

Il passaparola dei contestatori

Karini e Rasoulof sono due cineasti. A Roma per partecipare al festival cinematografico Senza frontiere, nel corso del quale hanno presentato rispettivamente Berlin Wall, video performance sul muro di Berlino («ognuno costruisce il muro esattamente alla sua altezza»), e Head Wind, documentario sulla censura nel loro paese (cui di riferisce l’immagine). Karini, che l’Iran l’ha abbandonato qualche anno fa (vive tra Berlino e New York facendo il video maker e il produttore),  i disordini li ha seguiti da lontano. Su Internet, in tv. «In questi giorni ho pianto tantissime volte», confessa, «non pensavo mai di vedere la gente come 30 anni fa». Rasoulof invece a Teheran ci abita. E la protesta l’ha vista in diretta. «Cose simili sono già accadute», precisa, «solo che nel resto del mondo non lo si sapeva. Oggi le proteste sono diventate visibili. E si svolgono in città come in campagna. La gente è arrabbiata. Sente di aver ragione e dice: “lui non è il nostro presidente”. Si è mobilitata con il passaparola».

Potere di censura

Lui sta per il «signor» Ahmadinejad. «In questi anni gli iraniani hanno imparato a vivere trovando soluzioni ai problemi che si trovavano di fronte. Hanno usato l’astuzia nei confronti del potere». Che proibirebbe qualsiasi cosa, se solo potesse. Come dimostra il suo film,Head Wind, un documentario sulla censura e l’uso della televisione satellitare e di internet, in una nazione in cui entrambi sono vietati. Anzi vietatissimi.  E ciò nonostante assai diffusi. «Il film l’ho girato tre anni fa», spiega, «con l’autorizzazione per girarne uno diverso». Un piccolo bluff reso possibile dal progresso tecnologico «che oggi permette di fare a casa il montaggio, di mettere su una pen drive un film e portarlo fuori dai confini. Di fatto il governo non ha più la possibilità di controllare». Il che però non gli impedisce di continuare, protervamente, la sua azione repressiva. Prendete il divieto di avere il satellite. Ogni parabola è una forma di auto-denuncia. Ma quando i soldati arrivano e distruggono, il giorno dopo sono ancora lì. «In Iran televisione e stampa significano governo», puntualizza Karimi. «Perciò è naturale che le persone siano interessate ad avere canali diversi di informazione e di intrattenimento», gli fa eco Rasoulof. Che in Head Wind descrive appunto come questo interesse accomuni città e campagne. Anche i piccoli villaggi, i più controllati dal potere (e quelli dove Ahmadinejaf ha speso molti soldi in campagna elettorale), sono pieni di parabole. «È il loro modo per essere informati. La censura in Iran è così forte, il governo è così pressante, che la popolazione ha perso ogni fiducia. Si fida solo delle informazioni che vengono da fuori.Molti canali iraniani vanno in onda dall’America ad esempio». La modernità e i suoi paradossi, insomma. «Il mio film però non parla solo delle limitazioni. Sottolinea anche la tenacia degli iraniani, determinati a mantenere il loro rapporto con il mondo esterno». Va da sé che in Iran Head Wind è stato visto solo in maniera clandestina. Nonostante un premio assegnatogli dall’associazione dei cineasti. «Il governo controlla la cultura ma non per proteggerla», precisa Mohammad, «se lo facesse per salvaguardarne l’identità, sarei anche d’accordo. Ma di fatto esercita pressioni e censure solo perché è preoccupato per la sua stessa sopravvivenza».

 

 

 

 

 

 

 


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