Economia

Il cinecoop di Soldini alla sfida di Londra

Il documentario sul mondo cooperativo diventa un piccolo caso scuola

di Maurizio Regosa

Affermare un marchio.
E insieme difendere una visione solidale della società. Così la Coop aveva affidato al regista milanese il compito di raccontare il volto profondo del nostro Paese. Il successo è stato grande. E ora approda oltre frontiera. Intervista
Un Paese diverso, documentario sul mondo cooperativo commissionato dalla Coop e realizzato da Silvio Soldini e Giorgio Garini, è stato selezionato dal London International Documentary Festival, la più importante vetrina internazionale per film maker, documentaristi, autori indipendenti di tutto il mondo. Sarà dunque proiettato davanti a un pubblico internazionale che avrà l’occasione di fare le stesse scoperte dell’autore: «Ho imparato che ci sono tante persone che mettono vera passione e veri valori nel loro lavoro. Valori che non sono quelli che sono sbandierati dalla televisione: hanno a che fare con la qualità, con l’atteggiamento verso il mondo in generale, la natura, gli animali?», spiega Soldini, uno degli autori più schivi e più apprezzati del cinema italiano.
Vita: Il film racconta di gente normale che costruisce un Paese diverso?
Silvio Soldini: È gente che però fondamentalmente ha dei valori, sui quali basa anche il suo lavoro. È probabile che sia una minoranza. Molti cercano solo di far soldi. La società è andata in questa direzione ultimamente.
Vita: Che giudizio dà della nostra società?
Soldini: Mi piacerebbe molto fosse diversa. Non fosse così proiettata verso l’accumulo e verso il guadagno a tutti i costi. Anche la Coop ha che fare con questa dimensione. Alla fine c’è un fatturato. Nonostante questo, cerca anche di portare avanti scelte diverse.
Vita: La diversità è presente in molte sue opere, in particolare in Brucio nel vento.
Soldini: Quello era un film nato da un testo letterario sospeso in un tempo e in un luogo imprecisato. Non si sa dove si svolge. È un effetto cercato. Volevo essere molto onesto e non stravolgere il libro di Agota Kristof la cui vicenda, appunto, non si sa dove avviene. Si sa che siamo nell’Ovest e che il protagonista arriva dall’Est. Avrei potuto ambientarlo negli anni 50 a Torino, con un emigrato del Sud. Quindi non è un film realistico, ma poetico.
Vita: Il rapporto con il diverso non è andato deteriorandosi?
Soldini: Ci sarebbero da fare tanti film indagando sulla diversità nel tessuto sociale. Ma bisogna trovare la chiave giusta. Le seconde generazioni, i figli di immigrati che magari sono nati qui, oggi ci raccontano – anche attraverso romanzi e racconti – la nostra realtà, guardandola da un altro punto di vista.
Vita: Che cinema guarda?
Soldini:I Dardenne? appena esce un loro film vado a vederlo. C’è sempre qualcosa di molto puntuale e profondo. Ti rimangono in testa delle cose. Delle immagini che poi ti portano a delle riflessioni. E poi Gomorra. Mi è piaciuto tantissimo.
Vita: E Si può fare di Manfredonia? Un altro film con il tema del cooperare al centro…
Soldini: Un’operazione interessante. Tra l’altro il mio primissimo documentario, Voci celate, era proprio su un day-hospital psichiatrico, commissionato dalla Provincia di Milano. Ero molto giovane e l’impatto è stato molto forte. In Manfredonia ho ritrovato molte cose che avevo conosciuto dal vero. Il suo film è anche una commedia e forse va fin troppo nella direzione del «volemose bene». Però ben venga. Tra i film degli ultimi anni mi è molto piaciuto quello di Kim Rossi Stuart, Anche libero va bene. In generale, amo ci sia uno sguardo molto preciso, che qualcuno racconti andando in profondità e avendo un’idea precisa di come fare. Quelli che lasciano a desiderare sono i film dove non si sente un regista che ha le idee chiare… Quando ci si chiede «perché mi ha raccontato questa storia?», vuol dire che non c’era un’esigenza vera. È difficile trasmetterla se non l’hai tu.

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