Cultura

Il caso. Perché la dittatura militare tace la verità. A Yangon i morti non (si) contano

"La giunta governativa minimizza e finge che tutto vada per il meglio", dicono voci dell’opposizione. E al silenzio si accompagna una credenza popolare... di Pablo Trincia

di Redazione

Pochi attimi dopo il ritiro dell?ultima ondata assassina dalle coste dell?Asia meridionale e del Sud-Est asiatico, le prime immagini della catastrofe già rimbalzavano sui notiziari di tutto il mondo: case e capanne distrutte, veicoli capovolti, urla di sgomento, corpi senza vita intrappolati tra le macerie, seminascosti dal fango, allineati sulla spiaggia. Già si cominciava a fare bilanci, a fornire cifre. Dall?Indonesia, dallo Sri Lanka, dalla Thailandia, dalle Maldive, persino dall?Africa orientale e dalla Somalia. Ma non dal Myanmar.
Mentre governi, operatori umanitari e giornalisti lavoravano febbrilmente per aggiornare le famiglie di abitanti e turisti stranieri attraverso radio e tv locali e internazionali, dall?ex Birmania proveniva un silenzio prolungato e inquietante. «I morti sono più di 80mila in Indonesia, superano i 10mila in India, mentre la Thailandia ne conta almeno 5mila?», dicevano i reporter delle principali emittenti ora dopo ora. «Tuttavia», continuavano, «non si sa ancora nulla sui danni e le vittime in Myanmar».
Le poche notizie che trapelavano dal ?Paese delle mille pagode?, chiuso da mezzo secolo nel buio di una dittatura militare, erano e sono ancora oggi vaghe e piene di condizionali e punti interrogativi. Per il governo i morti causati dallo tsunami sarebbero poco più di cinquanta, una cifra che lascia perplessi se si considera che le regioni meridionali del Paese distano circa 250 chilometri dall?isola thailandese di Phuket, una delle più colpite dal terremoto marino. Vero è che, a differenza del vicino Bangladesh, il Myanmar e la sua popolazione sono stati raramente colpiti da disastri naturali.
Tuttavia permane il sospetto che la giunta militare birmana stia cercando in qualche modo di minimizzare i danni e di evitare l?argomento. Pochi giorni dopo l?arrivo dello tsunami, uno dei principali giornali governativi del paese, il New Light of Myanmar, non menzionava affatto l?evento, dando ampio spazio ai messaggi di auguri di buon anno che i generali della giunta militare mandavano alle diplomazie dell?Asia. «Il generale Than Shwe manda un messaggio di solidarietà a Indonesia, India, Thailandia e Sri Lanka per la disgrazia che li ha colpiti», era il titolo di apertura del quotidiano birmano il 27 dicembre, all?indomani dell?accaduto. Nessun riferimento a morti, feriti o dispersi in territorio birmano, né ai danni materiali provocati dal maremoto. Sembrava che non fosse passato nessun tsunami. L?unica ammissione è arrivata sotto forma di un breve e secco comunicato da parte di un portavoce governativo, che chiudeva la questione con il bilancio di «una cinquantina di morti».
Giorni dopo, nella vicina Thailandia il Bangkok Post ha pubblicato la notizia della morte di 800 pescatori birmani in territorio thailandese, mentre altri 1.500 risultavano dispersi. Dal Myanmar non è arrivato alcun commento e la notizia non è stata riportata.
Eppure la scossa di nono grado avvenuta al largo dell?isola di Sumatra è arrivata anche in Myanmar. Sul numero di morti non si ha alcuna certezza, anche se testimonianze indipendenti raccolte dalle agenzie parlano di diverse centinaia di vittime.
Ad oggi non si ha notizia delle diverse comunità di pescatori e di gitani del mare che abitano le province marittime di Arakan, Tenesserim, Irrawaddy e le isole. Intanto regna il mistero sul destino dell?arcipelago birmano delle Coco Islands, al largo delle coste del Myanmar nel mare di Andaman. Fonti ufficiali avrebbero dichiarato che le isole si sono miracolosamente salvate dalla furia del maremoto. Per il quotidiano indipendente Democratic Voice of Burma l?intero arcipelago sarebbe stato spazzato via. Ma c?è di più. Poco dopo l?arrivo dello tsunami, la terra in Myanmar avrebbe tremato di nuovo, percorsa da nuove scosse di terremoto. Sulla cui entità si sa ancora poco o nulla.
Secondo lo stesso quotidiano, che ha sede ad Oslo ed è composto da esuli e oppositori del regime, non vi sarebbe nulla di bizzarro nell?atteggiamento tenuto dal governo di Yangon. «I membri della giunta hanno imposto il silenzio sulla vicenda dello tsunami per salvaguardare il proprio potere e la propria immagine», riferiscono dalla redazione. «In Myanmar c?è una credenza popolare secondo cui l?arrivo di una catastrofe naturale può preludere a un grosso cambiamento nella vita del Paese. Per esempio un cambio di governo. La giunta non vuole che questo accada. Per questo minimizza e finge che tutto vada per il meglio».
Eppure anche tra gli oppositori del regime birmano c?è chi, in Myanmar, si è stupito dell?atteggiamento tenuto dal governo riguardo alla notizia. Uno di questi è Ludhu Sein Win, veterano giornalista indipendente che ha trascorso dieci anni della sua vita in carcere come dissidente.
«In Occidente si tende a pensare che il regime birmano abbia nuovamente creato una situazione di blackout mediatico», ha detto a Vita dalla capitale Yangon. «Pochi si sono accorti invece che, per la prima volta da molti anni, qualcuno ha almeno ammesso pubblicamente che vi sono dei morti e dei dispersi. Per noi è un segnale di apertura e in fondo quasi di speranza».

Pablo Trincia

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