Mondo

Il caporalato 2.0 della gig economy

La macchie scure dei drappelli di migranti della Stazione Centrale di Milano che vivono nel piazzale Duca D’Aosta sono puntinate, giorno e notte, dalle fogge colorate degli zaini delle piattaforme di delivery. C’è il giallo di Glovo, il lilla di Foodora, il verde di Uber Eats. Nessuno di loro però ha documenti. Come possono degli irregolari fare consegne a domicilio?

di Lorenzo Maria Alvaro

Stazione Centrale, Milano. Piazza Duca D'Aosta, da sempre, è popolata da una moltitudine di persone che non sono lì per prendere un treno. Ci sono venditori ambulanti, malandrini di varia natura, spacciatori, mendicanti, clochard. Ma da qualche anno, circa dal 2014 stando a quello che raccontano, c'è anche un nutrito gruppo di ragazzi giovani provenienti dall'Africa. Sono i cosiddetti migranti. Sono i veri protagonisti delle cronache sul Mediterraneo, sui salvataggi in mare, sulla battaglia di Salvini con le ong. Giorno e notte questi ragazzi, a drappelli, abitano le aiuole del piazzale davanti alla stazione. Perché siano lì e non in centri o all'interno di percorsi di integrazione è difficile da capire. Nessuno vuole parlare. C'è chi è arrivato via mare a Lampedusa, chi è arrivato da altri Paesi europei (i cosidetti dublinati) chi è rimasto escluso dai percorsi in cui era integrato per via del Decreto Sicurezza.

Se capire le loro storie è complicato molto più semplice è capire di che vivano. Le macchie scure dei gruppetti che popolano la piazza infatti sono puntinate di colori allegri e vividi. Sono gli zaini termici delle piattaforme di delivery che hanno ormai invaso la città.

C'è il lilla di Foodora, il giallo acceso di Glovo e il verde di Uber eats. Le persone che consegnano a domicilio pizze, hamburger e pietanze asiatiche a Milano spesso sono proprio loro, i migranti arrivati in barca dalla Libia. O almeno quelli che per sopravvivere non vogliono finire nei giri dello spaccio.

Il fatto però è che nessuno di loro ha documenti. Sono tutti irregolari e, per la legge, clandestini. Non solo non potrebbero essere lì, in una delle piazze più note e controllate di Milano (ogni giorno sono di stanza sul piazzale una camionetta della Polizia di Stato e quatrro mezzi dell'Esercito). Ma certamente non potrebbero lavorare.

Domenica sera intorno alle 22.30 incontro James e Momo (soprannomi perché i nomi veri non li vogliono dire). Sono armati di bici e borse (Glovo) e cellulare. Mentre attendono un ordine scambiamo qualche parola aiutata da un paio di sigarette offerte. Sono entrambi della Costa D'Avorio, sono arrivati via mare e vivono a casa di un amico regolare a MIlano. Il sistema per lavorare anche senza documenti è semplice: basta appunto avere un amico regolare. Chi ha i documenti si apre una posizione su una piattaforma di delivery, magari una per ciascuna piattaforma. A quel punto cede zaino, bici e cellulare agli amici irregolari. Non si sa se in amicizia o in cambio di una quota. Una volta ricevuto il pagamento dal datore di lavoro divide i soldi.

Le domande sono tante. In primo luogo qualcuna di queste piattaforme è al corrente di questo fenomeno? Cosa fanno per evitarlo? Non è strano avere dei ciclisti che lavorano h24 tutta la settimana? Gente che non dorme, non mangia, non fa pausa, mai?

Un fenomeno che svela una faccia inedita della gig economy. I marchi di delivery si stanno svelando come fautori del caporalato 2.0.

A queste domande sarebbe bello rispondessero. Se volessero contattarci possono scrivere a desk@vita.it.


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