È stato guardando dei vecchi filmini familiari, girati in super 8 in vacanza e nel tempo libero, che Sandrine Bonnaire ha compreso. Ha capito che il volto delicato di Sabine, sua sorella minore, non esisteva più.
Svanito il sorriso di un tempo, dimenticata la gioia del pianoforte, non restava che una sconosciuta travolta da cinque anni di ospedale psichiatrico.
Ed è stato allora che l’attrice ha preso la decisione di realizzare tutto a sue spese un film, presentato nel 2007 con successo a Cannes e seguitissimo sulla tv francese in una serata di fine gennaio: Elle s’appelle Sabine.
Sabine è la più piccola della grande nidiata di casa Bonnaire: 11 figli. Un giorno il fratello maggiore muore improvvisamente e Sabine precipita in una crisi senza sbocchi. Diventa violenta verso sua madre. I fratelli non sanno più come curarla e gestirla. È qui che decidono il passo del ricovero in ospedale e dell’affidamento alle cure psichiatriche. Sabine entra in un tunnel, da cui uscirà solo grazie alla determinazione delle sue sorelle che un anno fa, in rotta con i medici, decidono di portarla in una comunità e di provare un altro percorso.
Tra i passaggi di questo nuovo percorso s’inserisce anche l’idea di questo lungometraggio con il quale Sandrine Bonnaire vuole raccontare un’odissea ma anche un approdo. Un’opera al tempo stesso pudica e forte con cui mettere a confronto la Sabine di un tempo e quella di oggi. «Non capivo», ha spiegato la regista. «Vedevo il suo stato degradare continuamente. E non lo trovavo una cosa normale. Mi dicevano: “È la malattia che progredisce”. Per questo nel film si parla di “internamento”: per me Sabine ha fatto cinque anni di prigione a causa di un crimine che non ha mai commesso».
Una punizione immeritata che però ha lasciato segni pesanti: li mostra, la regista, accostando il presente e il passato avvalendosi di un montaggio alternato che non lascia dubbi e che anzi suscita parecchie domande. Come sarebbe stata l’esistenza di Sabine se fosse stata correttamente presa in carico, se la diagnosi di autismo fosse stata fatta nei tempi giusti, se – dopo la morte del fratello maggiore – non fosse finita in un ospedale che non ha saputo accoglierla e che anzi l’ha abbandonata a se stessa?
Difficile rispondere. Ma certo le immagini di “Sabine la pazza”, come la chiamavano i suoi compagni di scuola, fanno pensare. I primi piani della sua giovinezza accostati a quelli del presente (oggi ha 38 anni) suggeriscono considerazioni amare. Se una terapia trasforma una ragazza graziosa, appassionata di musica, di letteratura inglese e di geografia, in una donna obesa, apatica e dalle reazioni lente o aggressive a causa dei troppi farmaci, qualcosa non è andato come doveva. Ma il film, sottolinea la Bonnaire, non è un atto di accusa generico. È la constatazione che «nello sguardo c’è gran parte della cura». Che rispetto a istituti in cui non esiste il rapporto personale, è assai meglio – per queste patologie – ricorrere a piccole strutture come quella dove oggi vive, migliorando, Sabine (la quale grazie al film si è, in qualche modo, confrontata con il suo stesso passato).
Ma Sandrine (che si accinge a recitare la parte di una donna autistica in J’te souhaite au revoir di Guillaume Laurant) ha fatto qualcosa di più. Si è fatta ricevere da Sarkozy, con l’aiuto del medico che dirige il centro dove sua sorella è ospitata gli ha illustrato la problematica e la difficoltà di affrontare l’autismo nei tradizionali istituti. Ora la questione è nelle mani del ministro degli Affari sociali. «Le cose sembrano muoversi, anche se è abbastanza complicato: lo Stato ha meno potere di quel che si creda», ha commentato l’artista. La battaglia continua?
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