Cultura

Il capitalismo che ci ha rubato le parole ora ci ruba anche le storie

Nel loro ultimo libro, Luc Boltanski, tra i più importanti sociologi dei nostri anni e Arnaud Esquerre, ricercatore del CNRS, esperto di sette e manipolazione mentale, spiegano come tramite lo storytelling “beni e servizi” siano diventati «fattori dinamici del capitalismo». Emerge una nuova forma di ricchezza, che non è prosperità ma ostentazione, lusso, arricchimento. Partendo dalle collezioni d'arte, per finire col welfare: se tutto è merce, la merce, in fondo, siamo noi

di Marco Dotti

Abbiamo un problema con le storie. Di conseguenza, abbiamo un problema con le cose. Altra, per molti versi traumatica conseguenza: abbiamo un problema tra di noi, nelle relazioni.

Ci arricchiamo (pochi, in verità) e, al contempo, diventiamo più poveri (quasi tutti). Luc Boltanski è tra i più importanti sociologi dei nostri anni. Con Arnaud Esquerre, ricercatore del CNRS, esperto di sette e manipolazione mentale, ha pubblicato un libro apparso da poco per le edizioni del Mulino. Il titolo: Arricchimento. Una critica della merce (pagine 529, euro 38).

La tesi è presto detta: tramite lo strumento del corporate storytelling “beni e servizi” sono diventati «fattori dinamici del capitalismo». Detto in altri termini: sono stati integralmente mercificati. Perduto il loro valore d’uso, corrotto il valore di scambio, resta la parola per creare quell’aura attorno alla merce che, come lo scintillio dell’oro per il selvaggio narrato in tante cronache etnocentriche, diventa valore in sé.

La dinamica del capitalismo predatorio, osservava Boltanski in un altro lavoro, Il nuovo spirito del capitalismo (scritto con Eve Chiapello), è tale che la sua la sua bulimia si alimenta di parole. In particolare, delle parole altrui che capovolge, corrompe, infine svuota e riempie di un senso contrario rispetto a quello di partenza. Responsabilità, socialità, ecologia, solidarietà e persino impresa finiscono per significare tutto e il contrario di tutto. Ovvero: non significano più niente.

Dalle parole del lavoro con Chiapello, che è del 1999, questo si distingue per un passaggio: dalle parole “svuotate” dal discorso del marketing, alle storie rivalorizzate dalla dimensione immateriale del nuovo capitalismo.

Viviamo in un’epoca che Esquerre e Boltanski definiscono «dell’economia dell’arricchimento». Un’epoca che si caratterizza per l’onnipresenza di cose, persone, prodotti, racconti su cose, persone e prodotti che autoriproducono un sistema di ricchezza tanto esclusivo e appannaggio di pochissimi quando capace di saturare l’immaginario di tutti.

Rentiers, nuovi ricchi, arricchiti chissà come, yacht stellari, gioielli e cene da Mille e una notte in qualche stamberga della Costa Smeralda… E poi c’è il welfare, anch’esso colonizzato dal racconto dell’opportunità senza contropartita, dall’inclusione senza conflitto, senza tensioni, senza vita. Variazione solidale del tema del lusso alla portata di tutti, ma non per tutti. Fino a che qualcosa si inceppa e si scopre che ciò che lo storytelling descrive come inclusivo, esclude.

La prima barriera all’inclusione sono proprio le storie, un brusio di sottofondo che tutto confonde.

Ci sono cose, raccontava un vecchio antropologo, che possono essere vendute ed è giusto venderle. Ci sono cose che possono essere donate ed è giusto donarle. Ma ci sono cose che vanno solo custodite e non possono essere né vendute, né donate. Vanno conservate per il bene di tutti.

Queste cose sono, forse erano le nostre storie comuni. Che cosa resta di queste storie, oggi, quando il massimo splendore della merce coincide con il grado zero della loro condivisione? Quasi nulla. Non resta quasi nulla. Ma in quel “quasi” c’è ancora un margine di manovra. È questo il senso della critica sociale, termine oramai desueto che appare nel sottotitolo di questo importante lavoro.

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