Mondo

Il calo delle adozioni: sela famiglia chiude le porte

Gli enti autorizzati confermano la flessione delle domande

di Benedetta Verrini

Orrore a Settimo Torinese. Un ragazzino spinge sotto un treno in corsa un piccolo marocchino di sei anni. Probabilmente lo ha molestato. L?assassino (come non esita a definirlo, il giorno dopo, la Repubblica), è nato in Brasile ed è figlio adottivo. Nel giro di pochi giorni il giovane C., forse di quattordici anni o forse di sedici, adottato da una coppia di operai torinesi quando era già grandicello, è diventato la summa di tutti i luoghi comuni e di tutte le paure legate all?adozione di bambini stranieri. Paure, timori e meschinità che, a pochi mesi dalla partenza del nuovo sistema di adozioni internazionali, in Italia, stanno mostrando tutta la loro insidiosa forza. Sono in crisi gli enti autorizzati, che devono barcamenarsi tra i numerosi blocchi delle adozioni nei Paesi dell?Est, l?applicazione della recente riforma, la gestione dei costi e le richieste delle coppie. Sono in crisi le coppie stesse, affaticate dai lunghi tempi di attesa, frustrate dal desiderio di un figlio ideale, trascurate dai servizi sociali. È in crisi la cultura dell?adozione, in un Paese di genitori mancati che adesso vogliono solo bambini dell?Est Europeo: belli, sani, biondi e preferibilmente neonati. «È un periodo strano. Dopo la legge di riforma delle adozioni non c?è stato quel boom di richieste che gli enti autorizzati si aspettavano», dice Marco Griffini, presidente di AiBi, « forse l?obbligatorietà del ricorso a un ente, dopo un era di fai-da-te incontrastato, ha un po? spiazzato le coppie». Gli ultimi dati, infatti, confermano una diminuzione nelle richieste di adozione e negli arrivi di bambini stranieri. La maggior parte degli enti riferisce di dover gestire la richiesta pressante, da parte degli aspiranti genitori, di bambini piccolissimi e possibilmente non di colore. «È una tendenza, molto negativa, che dobbiamo confermare», dice Melita Cavallo, presidente della Commissione adozioni internazionali, che proprio in occasione del delitto di Torino è intervenuta per annunciare la necessità di una scheda anagrafica che accerti l?età del minore straniero, «la legge permette di scegliere un ente autorizzato che coopera con determinati Paesi: pertanto, indirettamente, si può scegliere anche l?etnia del bambino. In genere la coppia si giustifica dicendo che nei piccoli paesi la cultura non è pronta ad accettare una diversità così segnata com?è il colore della pelle. La Commissione non condivide che queste motivazioni possano essere addirittura trascritte nei decreti, ma è una realtà con cui ci troviamo a fare i conti. Stiamo pensando alla realizzazione di una campagna di sensibilizzazione contro il razzismo attraverso spot pubblicitari». «A parole si dicono consapevoli che l?adozione deve essere fatta per il bambino, ma dentro hanno delle motivazioni inconsce ben diverse», racconta don Eugenio Battaglia, dell?associazione ?Il conventino?, «il desiderio di un bambino piccolo, ad esempio, dipende dalla paura di non saper gestire una personalità già formata. In tanti anni di esperienza posso dire che un bimbo di pochi mesi non è una garanzia per la buona riuscita di un?adozione. Il problema è che l?80% delle coppie si rivolgono a noi dopo mille tentativi di procreazione naturale o artificiale e vivono l?adozione come la loro ultima possibilità». Il rifiuto generalizzato di bambini un po? più grandi, aggravato dal recente innalzamento della differenza d?età a 45 anni tra adottante e adottato, rischia di strozzare ulteriormente il collo di bottiglia delle adozioni internazionali. «Oggi i neonati trovano facilmente collocazione nei loro Paesi d?origine», sottolinea la giudice Cavallo, «negli orfanatrofi restano i bambini più grandi e più difficili. Se la coppia si apre all?adozione per dare risposta ai bisogni di questi bambini, allora non avrà problemi ad accoglierli. Se invece vive questa esperienza come risposta a un bisogno proprio, allora finirà per vagheggiare il bambino mai avuto, piccolo e perfetto. In questo caso la valutazione dei servizi sociali e del tribunale, insieme all?aiuto nella formazione da parte dell?ente, giocano un ruolo fondamentale per portare allo scoperto questi desideri inconsci, ed eventualmente sarà la coppia stessa ad autoescludersi da questa esperienza». Nonostante la riforma delle adozioni abbia riconosciuto il diritto del bambino ad avere una famiglia senza subire una distinzione di sesso, di etnia, età, e religione, la scelta delle coppie continua ad andare a scapito dei minori. AiBi riferisce che in Perù ci sono circa 120 bambini adottabili, ignorati perché sopra i cinque anni. La discriminazione di età, di etnia e addirittura di sesso, poi, è stata ripetutamente avallata dai decreti di idoneità emessi dai tribunali di Ancona, Roma, Cagliari, Torino e Milano. «Una coppia che vuole solo un bimbo bianco o solo un bimbo piccolo evidenzia segnali chiari di difficoltà ad approcciarsi all?adozione», spiega Graziella Teti del Ciai, che sottolinea la necessità di un solido cammino formativo prima dell?adozione. Il Ciai sta mandando a tutte le famiglie adottive che ha seguito, in trent?anni di attività, un questionario per monitorare la buona riuscita dell?adozione. «Credo che si possa parlare di un?adozione non riuscita ogni cento», dice la Cavallo, «ma poi, cosa significa adozione non riuscita? La famiglia adottiva non è un modo perfetto. Nella mia lunga esperienza ho assistito all?allontanamento e poi al ritorno a casa di tanti adolescenti, provenienti da famiglie naturali come da famiglie adottive, e non posso dire che questo fenomeno sia più ricorrente in queste ultime».


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