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Il burnout della famiglia

Gli episodi di cronaca, volenti o nolenti, ci portano lì. A dire che qualcosa si è inceppato e che qualcosa ci stiamo perdendo. La newsletter "Dire, fare, baciare" ogni martedì prova a ragionare insieme sui temi della famiglia, dell'educazione, della scuola

di Sara De Carli

Il tono dello storytelling è questo, uniforme e senza appelli. Gli episodi di cronaca, d’altronde, volenti o nolenti portano lì. A dire che qualcosa si è inceppato e che qualcosa ci stiamo perdendo. Veniamo da giorni in cui i titoli ci hanno parlato continuamente di figli che uccidono genitori e genitori che uccidono figli, adolescenti che uccidono e adolescenti che vengono uccisi in un lunghissimo inanellarsi di storie tutte diverse e tutte così drammaticamente ripetute. La scorsa settimana, con la vicenda di Traversetolo appena arrivata alla nostra coscienza, aprendo questa newsletter avevo scritto, citando poeta René Char: «domani cercheremo le parole, ma sarà comunque solo il tentativo paradossale di “parlare trattenendo il respiro”. Questa volta, volutamente, ho provato a cercare le parole non nell’esperienza di psicologi o sociologi, ma nell’arte. Là dove si è più abituati a leggere dentro l’animo umano e a cogliere nella vicenda del singolo, così lontana da noi, quel frammento che invece parla esattamente di noi, tutti.

Maternità cioè macabro

Ho dialogato con tre donne di grande libertà: Sarah Victoria Barberis e Sara Innocenti, scrittrici (leggi qui) e con l’artista Margaux Bricler (leggi qui). Ne sono usciti due pezzi duri e sorprendenti, anche divisivi, ma senza infingimenti, perbenismi e moralismi. Tra le dieci parole che Barberis e Innocenti hanno individuato per ragionare attorno a ciò che la storia di Chiara Petrolini muove dentro di noi, ci sono macabro (le donne più giovani – scopro – lo abbinano alla maternità in sé) e cancellare, come movimento che caretterizza una generazione. «La maternità non è niente, è full of sound and fury signifying nothing, cioè è fuffa, è un guscio vuoto. La maternità, che è ben diverso di avere un bambino, è il modo di nominare tutto ciò che ci vincolerà. L’uovo, per un soggetto politico e aggiungerei per una donna, è un destino di merda», aggiunge Margaux Bricler, un’artista non ancora quarantenne che da vent’anni lavora sul mito di Medea.

La maternità, che è ben diverso di avere un bambino, è il modo di nominare tutto ciò che ci vincolerà. L’uovo, per un soggetto politico e aggiungerei per una donna, è un destino di merda

Margaux Bricler, artista

Disdicevole, signora mia? Non serve a nulla, guardiamoci dentro. La filosofa Adriana Caravero d’altronde nel suo recente Donne che allattano cuccioli di lupo ricorda come il corpo gravido sia repulsivo e attrattivo insieme, un corpo che «non ha nulla di sacro, di idilliaco, di luminoso», ma al cui interno, al contrario, si annida un qualcosa di profondamente «tremendo» (grazie a Sabina Pignataro per la segnalazione).

Che fine ha fatto il senso di realtà?

Segnalo alcune riflessioni utili che ho letto in questi giorni attorno alla vicenda di Chiara, la ragazza che ha seppellito i suoi neonati in giardino. Tre le parole chiave: emozioni, responsabilità, legge.

«Continuano a scrivere che il suo gesto è inspiegabile, che la ragazza è un enigma, che è indecifrabile. È vero, ma dobbiamo tenere conto di una nuova realtà: di una belva anestetica e anestetizzante che si sta mangiando il cuore e il cervello di molti giovani. Un congelamento, un’astenia psichica che colpisce trasversalmente ogni fascia sociale. È un mood dell’epoca, un diabolico refrain che perverte il senso della vita. In questo non avere parole per le emozioni proprie e altrui, in questa difficoltà a distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche, non si partorisce ma si espelle», ha scritto la psicologa e psicoanalista Laura Pigozzi sulla sua pagina Facebook.

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ha messo l’accento sulla responsabilità: «Come si possono agire azioni gravissime, che hanno enormi conseguenze anche sul piano penale, senza sentire – almeno all’apparenza – angoscia o rimorso? Come si può tornare ad abitare la vita, viaggiare, uscire con gli amici, bere un aperitivo sapendo quel terribile segreto che nessuno sa? C’è qualcosa che si è interrotto, frantumato nella vita dei giovanissimi, qualcosa che non riusciamo più ad offrire, in quanto adulti, a chi oggi sta crescendo. Ai nostri figli garantiamo spesso vite in cui non manca nulla, ma alcuni di loro sembrano non aver interiorizzato il principio di realtà, la consapevolezza del proprio agire e le implicazioni che ne possono derivare sia sul piano personale che su quello sociale. Come si sviluppa il senso di responsabilità oggi? Perché in alcuni giovani dalle vite apparentemente perfette sembra non essersi formato?» (qui il suo post).


Una riflessione che sembra rispondere al pezzo che lo psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto sabato su Repubblica, intitolato L’orrore in giardino le vite sdoppiate di quei ragazzi senza legge né tormenti. «I comandamenti sociali del nostro tempo tendono a produrre la loro più netta divaricazione: l’assoluta libertà provoca un collasso del senso della responsabilità. La crisi in cui versa il discorso educativo è un esito significativo di questa divaricazione e ci consegna una domanda inaggirabile: come fare esistere una libertà che non rigetti la responsabilità? Quello che in questa scena sembra palesarsi è l’assoluta assenza di senso di colpa. La vita continua come se niente fosse perché niente di davvero significativo è accaduto. Mentre per l’uomo moderno — si pensi al protagonista di Delitto e castigo – è il confronto con la solidità della Legge a generare angoscia, lacerazione morale, vergogna e senso di colpa, nel nostro tempo è l’inconsistenza della Legge ad aprire un nuovo campo dove semmai l’angoscia non sorge dal confronto con il peso della Legge ma con la sua latitanza».

La solitudine del caregiver

Sulla home page del Guardian, intanto, tra i raid sul Libano e il primo caso di suicidio in Svizzera cui è stata impiegato il Sarco (una «sorta di camera a gas portatile»), in alto a destra campeggia questo titolo: «L’uomo che confessa in TV l’omicidio della madre scatena una polemica sull’etica dei media in Italia». Peccato che di questo dibattito, qui da noi, non se ne veda traccia. A chi invece è caregiver, Alzheimer o no, diciamo “fatevi aiutare, ognuno come può”. Il “non ce la facevo più” del cinquantenne che ha soffocato la madre, nella regione che teoricamente è un’eccellenza nazionale dal punto di vista della presa in carica sociosanitaria, ci lascia tanto da pensare. Proprio da sabato, Giornata Mondiale dell’Alzheimer, è on line il sito del “Progetto Teseo -Fragilità e demenze in una comunità che cura”, un progetto che da un anno a Milano sta operando in una modalità innovativa, integrando in filiera le azioni a sostegno della popolazione anziana a rischio di compromissione cognitiva e demenza.

Il New York Times invece questa settimana ha pubblicato un lungo articolo intitolato Today’s Parents: Exhausted, Burned Out and Perpetually Behind, dove racconta come nell’ultimo decennio i genitori hanno sempre dichiarato livelli di stress più alti rispetto agli altri adulti. Questa puntata di Fahrescuola, che riprende il tema, è interessante. «Non esageriamo, tuttavia il problema c’è», dice Anna Guerrieri, presidente del Coordinamento CARE. E mette a tema l’idea di voler costruire a tavolino l’individuo perfetto (anche il figlio), la fatica di ammettere di non farcela e il fatto che crescere un figlio non possa essere una faccenda privata.

La newsletter di VITA

Questa è una parte della puntata di “Dire, fare, baciare” di martedì 24 settembre. È un contenuto riservato agli abbonati di VITA, che sostengono il nostro lavoro: grazie! Ogni martedì rileggo con loro alcuni temi legati alla famiglia, all’educazione e alla scuola, partendo dai fatti di cronaca, dall’agenda del dibattito, dagli incontri che faccio, dagli spunti che la realtà ci offre. Se vuoi riceverla, iscriviti a questo link.

Foto di Tuna Ölger da Pixabay

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