Non profit

Il buco nell’ acqua

La privatizzazione che verrà e le ragioni del coro di no che arriva della società civile

di Francesco Dente

L’ultimo tassello è il decreto 135, in fase di conversione.
E il bene pubblico per eccellenza diventerà, ancora di più, una questione di business. Vi spieghiamo cosa prevede
la norma. E, soprattutto, qual è la vera posta in gioco della grande battaglia sull’oro blu L’ora dei tre fatidici fischi è già segnata. 24 novembre. Novantesimo minuto di una delle partite più importanti per il destino delle risorse idriche del Belpaese. La partita dell’acqua. È l’ultimo giorno utile previsto dal calendario parlamentare per la conversione in legge del decreto 135/2009 sulla cosiddetta privatizzazione delle public utilities, la galassia delle società di gestione dei servizi pubblici locali che si occupano, soprattutto, del ciclo dei rifiuti, del trasporto locale su gomma e del servizio idrico. Entro questa data le forze di maggioranza di centrodestra, dopo aver fatto rete in prima lettura a inizio novembre al Senato, dovranno cercare di segnare anche alla Camera e incassare i tre punti, l’approvazione definitiva.
Un vero e proprio spartiacque, è il caso di dire, per un bene pubblico per eccellenza. Il provvedimento, va precisato, non tocca la proprietà dell’oro blu, bensì la gestione del servizio idrico integrato (acqua, fogna e depuratori). Già ora, del resto, esistono società private a cui è affidato il settore in alcuni territori. L’acqua, dunque, resta formalmente pubblica. Una prerogativa che è stata ribadita grazie a un emendamento al decreto del Pd. Il che non ha tranquillizzato affatto la vasta schiera degli oppositori del provvedimento.

Monopolio naturale
Il 135, vediamo cosa stabilisce, prevede due modalità di affidamento del servizio: l’affidamento integrale (100%) tramite gara a imprese costituite in qualunque forma (anche pubbliche) oppure il conferimento a una società mista pubblico-privato il cui socio privato, scelto tramite gara, abbia una partecipazione di almeno il 40%. La riduzione, infine, nelle società quotate della partecipazione pubblica al 30%. Questo, in estrema sintesi, ciò che accadrà d’ora in poi in via ordinaria. L’affidamento diretto o in house (attualmente la formula prevalente), senza gara cioè, sarà consentito solo eccezionalmente.
Un business miliardario che, secondo il BlueBook 2009, solo in termini di investimenti previsti supera i 60 miliardi. Il punto è che gli eventuali soci privati potrebbero essere interessati più al “bottino” delle tariffe che alla spesa per gli investimenti. Quello dell’acqua, infatti, è un monopolio naturale. In questo settore, a dispetto dei richiami dei liberisti alla concorrenza, non c’è da scegliere fra più operatori come nel caso dei telefonini e dei treni. L’utente rischia pertanto di finire ostaggio del gestore. Sarà un caso se, strada facendo, sono usciti dal campo di applicazione del decreto 135 la distribuzione del gas e dell’energia elettrica, il trasporto ferroviario regionale e le farmacie mentre sono rimasti i servizi idrici? Dubbi che rinfocolano i timori di chi vede con sospetto l’ingresso dei privati. «C’è il rischio che il pubblico si ritrovi a gestire solo quello che non è appetibile per i privati o che si privatizzino i profitti e si pubblicizzino le perdite», osserva Francesco Ferrante, della segreteria di Legambiente. Contro il decreto si schiera compatto il Forum dei Movimenti per l’acqua, la rete associativa a cui aderiscono più di ottanta organizzazioni nazionali e più di mille comitati territoriali, che invita a sottoscrivere l’appello e la petizione per dire No al decreto (vedi a pagina 6).

Il nodo authority
A metà strada fra privatizzatori e statalisti si collocano invece gli “apoti”. Quelli cioè che non si abbeverano né alla fontana dei mercanti dell’acqua né dei loro oppositori: ritengono le due posizioni viziate da un eccesso di ideologismo. Il pubblico, argomentano, scivola spesso verso politiche gestionali falsamente compiacenti verso i cittadini: investimenti rinviati e debiti gonfiati per non aumentare le tariffe che producono acquedotti colabrodo. I privati, d’altro canto, introducono elementi di managerialità ma sono interessati a sfruttare le rendite di monopolio. Il vero dramma, sottolineano, non è tanto la gestione pubblica o privata quanto, semmai, l’assenza di una authority, un soggetto regolatore indipendente che verifichi la compatibilità e la sostenibilità economica degli investimenti rispetto alle tariffe chieste. Tuteli, insomma, gli utenti dalle astuzie dei gestori privati e pubblici. «I Comuni siedono negli Ato, le Autorità territoriali ottimali, ma spesso sono anche i proprietari delle aziende municipalizzate a cui l’Ato affida il servizio idrico. Difficile che i sindaci riescano a controllare severamente l’efficienza di gestori che essi stessi hanno scelto magari piazzando un politico riciclato», spiega Benedetto Tuci, della segreteria del Movimento Consumatori. Un sistema di controlli debole, dunque, a livello locale e nazionale. E intanto il Coviri, Comitato di vigilanza sui servizi idrici, è stato soppresso e sostituito con una commissione ritenuta ancor più fragile. Come? Con un articolo infilato nel decreto per il terremoto in Abruzzo.


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