Famiglia

Iesa, dove la terra è tutta tosca

Qui Toscana. Un minuscolo paese nel senese; diario interiore da una terra che nessuna globalizzazione riuscirà a mangiarsi

di Walter Mariotti

E’ vero che la Toscana per sue caratteristiche endogene e per un?amministrazione virtuosa ha saputo traghettare se stessa in maniera indolore verso la modernità? Sembrerebbe di sì, visto quanto del paesaggio della regione sia stato preservato, tanto che spesso si ha la certezza di avere davanti agli occhi lo stesso spettacolo che avevano anche gli uomini di secoli fa. Ma l?attacco della modernità magari lascia tranquille le forme e le apparenze ma cambia il dna profondo. Solo osservatori intimi riescono a monitorare questi mutamenti infinitesimali ma profondi. Come accade ai due giornalisti, nativi di due piccoli centri del senese, in queste pagine. Iesa, insieme di frazioncine nel comune di Monticiano, fa poche decine di abitanti in tutto (l?intero comune passa di poco i mille). San Quirico arriva a 2.500. Agglomerati che il tempo ha preservato da ogni fenomeno traumatico sia di abbandono che di immigrazione. Agglomerati intatti nelle loro forme: San Quirico ha ancora buona parte del suo circuito murario ampliato nel 1400. La struttura urbanistica medievale è ancora ben riconoscibile, nei due nuclei del castello e del borgo Santa Maria. E preservato è anche il paesaggio che le circonda. Ma quanto resisterà questo incanto?

Apro la finestra, ed è piena estate. Chiudo la finestra, ed è piena estate. Apro il cassetto del canterano, da dove minacciano le fotografie di mio babbo dolce e duro e dei miei nonni con le camicie senza collo e la fusciacca alla vita dei banditi d?Ottocento che t?entrano dentro al cuore, ed è piena estate. è piena estate nelle petunie della terrazza di mia mamma, Franca, e nei suoi nasturzi, che fa finta di non vedermi e d?ascoltarmi mentre s?asciuga le mani allo zinale girando il volto verso l?acquaio dove precipita l?acqua del Vivo e la mosca gira a vuoto virando verso la tovaglia di cera a scacchi.

Il tempo
Esco nell?orto scampato a una primavera mai così feroce, ed è piena estate. Tocco il petalo della rosa che grida il suo rosso contro la volta immensa di lapislazzuli che ancora non capisco, ed è piena estate, anche nel chicco d?uva duro come l?acciaio è piena estate. Giro il corpo verde smalto dello scarabeo senza fiato, ed è piena estate. Mi guardo allo specchio sotto il crocifisso, ed è piena estate, qui, a Iesa, dove sono stato fanciullo e non capisco più se ho tre, sei dodici o cento anni qui, a Iesa, dove il tempo è finito e non sembra essere mai iniziato. Almeno non per me.

E’ l?inizio d?agosto ed è piena estate a Iesa, nella Toscana meridionale, a sud-ovest di Siena, da Siena pochi chilometri di castagni e cinghiali eppure molti anni luce. Ma un?estate alla maniera toscana, come sempre, un?estate che sa d?olio, terra rose in cima ai filari e pane sciocco ma croccante. Secca e brillante, quest?estate, ma anche un po? sdegnata, che non ha tempo da perdere e dove l?ombra sul muro è più scura, alla toscana insomma. Un?estate dove il caldo lascia lo zaffo dietro alla camicia e non dà rece.

E’ piena estate a Iesa, a sud-ovest di Siena, pochi chilometri ma molti anni luce, un?estate come la sua gente che è svelta, magra, furba e ridanciana se non la conosci, e grave e sensibile e forse profonda se decide d?aprirti la porta e smettere per un momento di fingere d?esser forte scuotendo le spalle, come faceva cinquecento anni fa per pigrizia, paura o anche solo per non pagar gabella. è piena estate, e anche il grillo tace e io non so più se mi trovo a Iesa a casa mia o davanti alla statua dell?arcangelo Gabriele, che guardavo dall?altare da cittino, colla spada sguainata e il piede sopra il diavolo, o fra le curve di Sovicille o ad Ancaiano, o magari a San Gimignano, sotto Santa Fina dove s?andava a mettere le viole e fare il gioco delle torri.

Il coniglio a tavola
Mi levo dal letto, ed è piena estate. Mi spoglio dei calzoni e mi aggiro per la casa come sempre ho fatto da quando non mi rammento, ed è piena estate. E mentre chiudo le persiane, ed è piena estate nella luce verde e tiepida che inonda la stanza e mi si fa avanti come un unguento, allargando le braccia e accogliendomi come quando mi perdevo nei boschi e nei campi la sera, tornando da scuola, dove diventavo foglia, corteccia, spiga e mi risvegliava solo il grido della preoccupazione di casa che era già buio. «O ?cche ffai nel bosco fin?a quest?ora? Un dovremo mi?a portatti dal dottore? E da solo poi? Un poi gio?a come tutti l?altri al Piazzale? Sempre a perdetti devi anda?? Vieni a tavola che cc?è il coniglio».

E’ piena estate a Iesa e mi sembra di non esser mai partito, ma restato sempre qui, fermo, immobile sul profilo sottile della zolla, attorcigliato al palo della vite del Pratallolivi, sommerso da tutto l?ocra e il verde e il grigio della Montagnola che mi continua a togliere il respiro, velata dall?argento verde dei lecci e degli olivi, graffiata lontano dal tonfo della Farma e della Merse, cui sembra sia negata una foce.

E di notte a Iesa mentre quattr?ore suonavano e una valanga di tenebre precipitava le sue falangi insonni e s?accendeva e subito si spengeva il volto, lo sguardo, la parola, dico, la Parola, allora quando? «Non abitare il dolore», mi diceva nonno Nanni davanti all?uscio, che pareva Alcibiade colle vene che gli guizzavano dalle braccia di novantenne fiero coll?occhio ceruleo e le orecchie come le mie, mentre mi preparava l?arco di castagno e acuminava le frecce, «abita il corpo del mondo e sue foreste, i sassi di Moverbia e anche le sabbie bianche degli oceani se l?incontrii, anche loro se questo ti è dato».

Le piccole porticine
Non abitare il dolore, e mentre correvo a cavallo del tagliamare, nascosto nel segreto della sera, piegato sullo stupore dei libri, quando non c?era più nemmeno un mozzicone di preghiera per le ceneri dell?anima che ti imploravano e allora quando, nella melma delle seccagne del Buiere o magari dietro alla casa di Nisio o anche a Solaia o a tonfare nell?incudine di Bino o fra le gonnelle delle vecchine di Piazza, dove le pietre erano lisce e lucenti fra l?argento e l?avorio e il miagolio dei gatti e le nuvole ridevano a tratti dal Belagaio e dalla Bandita, prima che noi ci si nascondesse dietro quelle porticine e quelle finestrine troppo piccole per poterci passare e metter fuori il capo, davanti a quell?ingressi delle case che solo Michelangelo, cristiano sì ma troppo cattolicoromano avrebbe tradito sproporzionandole, mentre quasi nessuno aveva la macchina e le case profumavano di ciliegie e di siepi di biancospino e d?ortica, mentre tornando a casa mi chiamavano tutti quelli che non voglio rammentare perché fa male, gli operai e i vetturini, i trippai e i cioccai, i cantonieri e anche i bighelloni che parevano avere gli occhi come li faceva Duccio alla Madonna di Crevole, o anche che abbeverando i cavalli ti venivano incontro come gl?angeli neri di Segna di Bonaventura o del Maestro di Badia a Isola, che faceva le facce alle donne come me le ricordo io, a Iesa, davanti al forno di casa, colla pelle di magnolia e gli occhi di porcellana, che mi facevano entrare perché mi mancava una bottiglina o un rocchettino «che alla mi? mamma gli serve». Sempre nello stesso modo, muovendo la bocca e il capo ma senza dire una parola.

Essere toscano
Come Curzio Malaparte anche io sono toscano, ma a differenza di lui che ci nacque per caso e non lo fu mai, io per caso non ci sono nato ma lo sono, lo fui da generazioni e lo sarò per sempre, fino al midollo, nei secoli dei secoli. Perché io sono di Iesa, m?accontento di essere di Iesa e se non fossi stato di Iesa forse non sarei voluto venire al mondo. In questo piccolo mondo che è un po? il mondo alla toscana, dove se c?entri t?accorge subito d?essere entrato tra i boscaioli e i contadini, anche se poi hanno inventato la lingua, la pittura, la legge e altre cose.

Perché i boscaioli e i contadini toscani non solo quelli che tagliano i lecci e cavano il ciocco, né che sanno vangare, zappare, seminare e far le carbonaie. Essere contadini e boscaioli a Iesa vuol dire soprattutto saper mescolare le zolle alle nuvole e le foglie al cielo e all?immaginazione, al dolore e all?infinito.

Scoprire l?universale in tutto vuol dire, nell?erba delle Lame e nei sassi di Cerbaia, nell?occhio dei bovi e nella fronte liscia delle cittine. Nel pane che salta e nel vin che canta dalla tavola dalle gambe torte, ieri come oggi nei giorni di pioggia, quando è primo mattino e il cielo diventa un coperchio senza sfiato. O magari nell?assoluto dell?estate, dove ci si perde in quell?infinito di lapislazzuli che ancora non capisco.

Che cosa vedere
Questa terra di papi e di cavalieri

Non pensiate di trovare Iesa sulle cartine. Non lo troverete. Infatti si tratta di un toponimo dalla storia antichissima (uno dei pochi di impronta etrusca ancora in uso), ma non codificato dai geografi. Iesa in realtà è l?insieme di sette frazioni nel piccolo comune di Monticiano. Disseminate sulle colline che scendono verso Bagni di Petriolo, non hanno particolari elementi di richiamo. Ma tutt?attorno è un fiorire di gioielli. A cominciare da Monticiano, che conserva due chiese romaniche e un ciclo di affreschi monocromi del Quattrocento nell?ex convento. Ma a pochi chilometri c?è la celebre San Galgano, con la sua abbazia cistercense e la chiesa a cielo aperto con un prato verdissimo come pavimento. Uno dei luoghi più suggestivi dell?intera Toscana, legato alla memoria di un nobile cavaliere, Galgano Guidotti che trascorse qui in eremitaggio gli ultimi anni della sua vita intorno al 1180, e alla ?vera? spada nella roccia. Oggi qui è ospitata una comunità di Mondo X di padre Eligio Gelmini. Nella vicina chiesetta di Monte Siepi, invece, è custodito un ciclo di affreschi, belli per quanto deperiti, di Ambrogio Lorenzetti, grande maestro senese del Trecento. Bagni di Petriolo, infine, ha acque termali alla temperatura di 43 gradi, note sin dal 1200 e frequentate da Enea Piccolomini, meglio noto come Papa Pio II.

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