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Idomeni, le foto della diaspora dei profughi

Sul confine naturale tra Grecia e Macedonia, vicino al fiume Konska, in 14.000, tra siriani, iracheni, ma anche afgani e pakistani, sono rimasti bloccati dalla chiusura delle frontiere. Tra i 1000 e i 2mila sono riusciti a forzare i blocchi mettendosi in cammino

di Eleonora Vio e Marco Cacioppo

Idomeni – «Non ce la facciamo più», urla esasperata una donna irachena mentre procede a passo sostenuto, trascinando un carrello carico di pacchi incellofanati, seguita dai suoi bambini e da una vecchia signora, forse sua madre. «Siamo rimasti a Idomeni per 20 giorni e la cosa peggiore, tolti la pioggia, il fango, e la mancanza di cibo e medicinali, è che ci siamo sentiti trattare come bestie. Siamo essere umani anche noi e vogliamo vivere». Dietro a lei decine di altre persone, coperte con sacchi impermeabili di fortuna e cariche di pesi, avanzano lungo i viottoli fangosi che dal villaggio di Chamilo, poco distante dal campo informale di Idomeni, dove in 14.000, tra siriani, iracheni, ma anche afgani e pakistani, hanno trovato rifugio temporaneo da giorni, conduce al fiume Konska, il confine naturale tra Grecia e Macedonia.

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La scorsa settimana la Macedonia ha ufficialmente annunciato la chiusura dei confini, e da quel momento sono iniziate le congetture sulle possibili nuove rotte che i migranti intrappolati in Grecia, nella lunga marcia verso l’Europa, avrebbero intrapreso per raggiungere la sospirata meta. Finché, lunedì mattina, in più di mille tra gli accampati a Idomeni hanno raggruppato i loro effetti personali e si sono messi in cammino. «La Germania vuole accogliervi mentre i Balcani vogliono solo i vostri soldi e, se saremo in 1.000 a marciare, i confini non potranno che aprirsi», recitava un volantino che girava per il campo da alcuni giorni, riportato su Twitter dal corrispondente del Time Simon Schuster. Si bisbigliava ci fosse un varco nel filo spinato al confine, posto dalle autorità macedoni per scoraggiare i migranti ad attraversare, ma la risposta ricorrente, e sfuggente, era sempre la stessa: «Domani vedrete…».


Fatto sta che in più di 1.000 – addirittura 2.000 secondo un fotografo di Reuters – sono arrivati in prossimità del fiume Konska e, dopo aver insistito per pochi minuti, sono stati fatti passare senza problemi dal cordone di poliziotti greci che si trovavano giù lì ad attenderli. «Non possiamo fare nulla per impedire a queste persone di provare, quantomeno, a varcare il confine», dice un poliziotto che chiede l’anonimato. «Abbiamo fornito loro campi attrezzati con cibo e tutti i servizi necessari, ma hanno preferito stare sotto la pioggia e in condizioni di fortuna. In Grecia non vogliono rimanere, questo è chiaro». Non appena la lunga fila di agenti si è spezzata, la gente ha cominciato a correre verso la riva del fiume. Tolte le scarpe, e caricati i bambini sulle spalle, hanno iniziato ad attraversare il corso reso impetuoso dalla pioggia battente dei giorni precedenti.

Ad aiutarle, tanti volontari provenienti da molte parti d’Europa e non solo, i quali avevano predisposto una fune di fortuna fissata ai tronchi di due grossi alberi sulle rive opposte del fiume. Nonostante il pianto terrorizzato dei più piccoli, il sorriso e la disperazione generali sdrammatizzavano un contesto altrimenti traumatico. Chissà, però, se, nel varcare il guado, erano al corrente che solo poche ore prima, intorno alle 3 del mattino, tre migranti afgani, tra cui una donna incinta, erano morti annegati proprio in quelle acque, e altri quattro erano stati ricoverati nell’ospedale di Gevgelaja, la cittadina macedone al confine.

Nonostante le difficoltà, i migranti, accompagnati dai volontari e alcuni giornalisti, hanno proseguito verso la rete di separazione con la Macedonia e – come previsto – sono riusciti a superarla. Mentre in trenta, tra attivisti e foto-giornalisti, sono stati arrestati dalle autorità macedoni per aver attraversato illegalmente il confine, e verranno rilasciati solo dopo aver pagato una multa di 250euro ciascuno, la gente in fuga è stata intercettata nel villaggio macedone di Milo e caricata su camionette dell’esercito. Ancora nulla si sa di loro e del loro destino, e ciò dà adito, inevitabilmente, al sorgere di nuove ipotesi. Ma, se anche fossero i minacciosi poliziotti macedoni ad avere la meglio, e i migranti fossero fatti tornare in Grecia, è lecito chiedersi se le centinaia di migliaia di persone in fuga attraverso il nostro continente, e in viaggio da mesi – se non anni –, si fermeranno davvero davanti a un ostacolo che, paragonato con quanto hanno dovuto patire finora, sembra davvero poca cosa.

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