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Idomeni: il limbo infernale da cui è impossibile uscire

Dalla chiusura della frontiera macedone 12mila profughi, di cui gran parte bambini, nel nord della Grecia, sono costretti a vivere in condizioni disumane. Per loro il sistema di richiesta asilo è bloccato: nessuno risponde alle chiamate Skype per fissare l’appuntamento all’ufficio di Salonicco e nessuno risponde alle loro domande. Un'emergenza che sottolinea l'inadeguatezza delle istituzioni e dell'UNHCR

di Ottavia Spaggiari

IDOMENI – Bloccati in un limbo fatto di fango, malattie e mancanza di informazioni. Dopo due mesi e mezzo dalla chiusura della frontiera macedone, 12mila profughi, per la maggior parte siriani e iracheni e per il 40% bambini, sono ancora costretti ad un’attesa straziante, trascorsa in condizioni disumane, in tende da campeggio e ripari di fortuna, nei campi agricoli appena fuori dal villaggio agricolo di Idomeni, nel nord della Grecia, a qualche metro dal confine. Nell’aria, il rumore fortissimo del vento, che rischia di spazzare via le ultime cose che queste persone sono riuscite a conservare nel durissimo viaggio che le ha traghettate in Europa e il silenzio, altrettanto assordante, delle istituzioni. Impossibile scappare all’attesa, impossibile scappare al limbo.

Per iniziare la procedura di richiesta d’asilo è necessario prendere un appuntamento via Skype con l’ufficio di Salonicco per fissare il colloquio. “E’ un procedimento online. Chiunque lo può fare in qualsiasi posto si trovi.” Afferma Marco Bono, responsabile regionale dell’UNHCR. Più facile a dirsi che a farsi. “A Idomeni in moltissimi non hanno nemmeno la possibilità di accedere ad internet. Nel campo ci sono appena due reti wi-fi, per 12mila persone!” Spiega Emanuel Massart, coordinatore del campo per Medici senza Frontiere (MSF).

Una delle due reti wi-fi è gestita completamente da un team di volontari. “Per ottimizzare i tempi e sfruttare al meglio il servizio, usiamo la rete solamente per permettere alle persone di chiamare gli uffici di Salonicco.” Racconta Yamine, 24 anni, volontario italo-algerino, arrivato a Idomeni da Padova con la campagna Over the Fortress. Insieme ad un gruppo di ragazzi da tutta Europa gestisce il flusso di persone che si alternano davanti ai due computer di una tenda affollatissima; alle sue spalle, un calendario preciso, diviso per lingua. “Ci sono solo alcuni giorni e orari prestabiliti in cui si possono effettuare le chiamate, il problema è che, molto spesso nessuno dall’altra parte risponde. Siamo qui da stamattina e oggi, ad esempio, nessuno ha risposto. La vita di queste persone è letteralmente appesa ad una chiamata.” Un processo estenuante che ha spinto Rania Ali, 20 anni, studentessa siriana di economia, a lanciare una petizione su Change.org per chiedere di sostituire Skype con un sistema alternativo: "Io e mio marito vogliamo fare richiesta per essere ricollocati in un altro Paese europeo. Ho provato a chiamare il Servizio per l'Asilo via Skype per 20 giorni. Senza alcuna risposta. Cosa si può fare quando la tua vita dipende da una chiamata?"

Una violazione del diritto internazionale gravissima, come sottolinea anche Medici senza Frontiere: “I rifugiati hanno il diritto di fare richiesta di asilo e il fatto che non abbiano accesso alle procedure è inaccettabile.” Afferma Massart. “Inoltre l’iter è lunghissimo. Per avere un appuntamento ci vogliono almeno 2 mesi e, per andare a Salonicco, le persone si devono organizzare con i propri mezzi, molti non possono permettersi nemmeno l’autobus o il taxi fino agli uffici! Infine, per ottenere una risposta bisogna aspettare tra i 6 e i 9 mesi!”

A complicare ulteriormente la situazione il fatto che il lavoro dei volontari che operano a Idomeni, è reso giorno dopo giorno più difficile. “Le autorità stanno cercando di scoraggiare la nostra attività qui. I rapporti con la polizia sono diventati più tesi. Non possiamo trasportare taniche di benzina in macchina e, per alimentare il generatore elettrico, siamo arrivati a fare benzina e a succhiarla direttamente dalla nostra auto!” Racconta Yamine. “D’altronde la nostra presenza rende il campo più vivibile e l’obiettivo adesso è quello di spostare le persone nei centri del governo, le cui condizioni però sono ancora del tutto ignote.”

Il governo greco, in collaborazione con l’UNHCR ha infatti allestito 10 nuovi centri di accoglienza nel nord della Grecia ma, secondo Medici senza Frontiere, queste strutture non rispecchiano ancora gli standard minimi di vivibilità. “In alcuni di questi centri non era nemmeno garantito l’accesso all’acqua.” Continua Massart. “Diverse persone sono state costrette a ritornare qui.”

Tra queste Malek, 37 anni, siriana, a Idomeni dalla fine di Febbraio: “Per un po’ insieme alla mia famiglia sono stata in uno dei centri del governo, ma le condizioni erano peggio che qui.” Racconta, accarezzando le guance di suo figlio, che come quelle di molti altri bambini qui, sono ricoperte dai puntini rossi di un eritema solare. “Siamo disperati. Nessuno ci dice nulla. Non sappiamo quando e se la frontiera aprirà e soprattutto non sappiamo cosa dobbiamo fare.”

Un senso di incertezza che si respira ovunque nel campo. “La cosa più terribile è la mancanza di informazioni, che rende queste persone ancora più vulnerabili alle promesse di trafficanti e approfittatori.” Racconta Imad Aoun, responsabile regionale di Save the Children, “Mi viene da pensare che se non ci sono informazioni, forse non c’è un piano preciso. Dopotutto questi sono i rifugiati dimenticati, quelli che si sono trovati bloccati nei paesi della rotta balcanica, subito prima dell’accordo UE/Turchia.”

Secondo diversi volontari, le autorità e l’UNHCR dovrebbero fare di più.

“L’UNHCR dovrebbe andare di tenda in tenda, spiegare a queste persone quali sono i propri diritti, quali sono le alternative e creare le condizioni per avere accesso ai procedimenti di richieste d’asilo,” afferma Rose Lee, volontaria indipendente arrivata a Idomeni da un mese. “E’ terribile vedere le vite di tutte queste persone sospese così.”

UNHCR, dal canto suo conferma che un piano simile sia in arrivo:

“C’è in previsione un piano per fare una registrazione di massa,” spiega Marco Bono, “Andando nei campi con delle unità mobili, per prendere tutti i nomi delle persone che si vogliono registrare.” La domanda è perché questo piano non sia già partito, la speranza è che parta prima che il caldo insopportabile arrivi a sostituire pioggia e vento. Nel frattempo 12mila persone continuano a dormire nel fango e le guance del figlio di Malek e di migliaia di altri bambini continuano a riempirsi di puntini rossi sotto il sole di Idomeni.

Foto: Ottavia Spaggiari

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