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Valutazione d’impatto, la sindrome della scoperta dell’acqua calda

L'incontro tra capitali finanziari e imprese sociali appartenenti al perimetro del Terzo settore si è rivelato un flop. Ne è emerso però un frutto avvelenato: l'impatto "positivo atteso". Una sorta di maldestro equivoco, come quello di chi si vanta di aver inventato l'acqua calda

di Federico Mento

Quando quasi 15 anni fa, iniziai a lavorare nell’ambito della valutazione d’impatto, non immaginavo di trovarmi ad armeggiare con un nuovo paradigma. Ero convinto, come del resto lo sono anche oggi, che la valutazione potesse rappresentare un prezioso strumento attraverso cui innescare all’interno delle organizzazioni dei meccanismi di auto-riflessività. In particolare, rispetto alle organizzazioni del Terzo settore, ritenevo che l’interpretazione iper-istituzionalizzante della legge 328 del 2000, affiancata alle politiche d’austerità, avessero progressivamente inaridito la capacità progettuale: la valutazione, dunque, come meccanismo utile a ri-attivare la propensione delle organizzazioni a immaginare visioni di futuro.

Soprattutto negli anni della “semi-clandestinità” della valutazione, gran parte dell’enfasi era focalizzata sulla necessità di maggiore accountability, di trasferire cultura aziendale alle organizzazioni della società civile, di migliore efficienza e processi.

Le ragioni di questo posizionamento possono essere ricondotte alla contestuale emersione del dibattito sugli investimenti sociali, procedo con alcune grossolane semplificazioni.

La prima: nuove opportunità finanziarie interesseranno il mondo dell’imprenditoria sociale, non possiamo farci scappare questa ghiotta occasione.
La seconda: come contropartita dovremmo, da un lato, garantire un maggior livello di efficienza, al fine di creare sufficiente capienza finanziaria per i ritorni agli investitori, dall’altro, dotarci delle metriche adeguate – quelle però dei capital provider – per dimostrare di generare impatto sociale.

Sull’esito dell’incontro tra capitali finanziari e imprese sociali appartenenti al perimetro del Terzo settore, preferisco stendere un velo pietoso, perché i fantastilioni promessi sono prontamente andati altrove (leggasi dove ci sono più profitto e meno rischi), e il gap nell’accesso ad opportunità finanziarie generative è rimasto quasi immutato.

Dal mancato incontro, però, è rimasto nel dibattito sulla valutazione uno strano frutto avvelenato, che potremmo riassumere nella formula la valutazione dell’impatto “positivo atteso”: ovvero un pugno di misure sintetiche che sono ben volute dagli investitori. Chi si occupa seriamente di valutazione, sa bene che la grande sfida del processo conoscitivo è appunto l’identificazione di impatti negativi, inattesi ed indiretti, ciò che ci aspettavamo non accadesse. Purtroppo, molta della valutazione, influenzata dalla fascinazione dell’impatto “positivo atteso”, tende alla superficialità analitica, proponendo tante piccole scoperte dell’acqua calda, che ci raccontano ciò che volevamo sentirci dire. Quindi, siamo ben lontani dalla ricerca dell’auto-riflessività da cui siamo partiti.

Ora, come possiamo evitare l’equivoco dell’impatto positivo atteso? Nel corso di questi anni, ho maturato la convinzione che adottare approcci partecipativi possa aiutarci nell’affrontare questa sfida. Con un doveroso caveat, perché, quando evochiamo la partecipazione, si può facilmente cadere nel tokenismo e nell’equivoco della consultazione dei portatori di interesse, anche qui semplificando: ho somministrato i miei questionari e raccolto alcune interviste. Se decidiamo di utilizzare nella valutazione metodi autenticamente partecipativi questa scelta dovrà avere inevitabilmente delle implicazioni a livello di disegno di ricerca, sin dalla definizione del mandato valutativo e delle domande di ricerca. E, di conseguenza, ciò che vorrò/potrò sapere, non sarà limitato all’impatto positivo atteso, ma potrà dischiudere prospettive diverse.

Questa scelta non è affatto neutra, implica la disponibilità ad aprire il processo decisionale ai portatori di interesse, una decisione non banale, molto impegnativa in termini di tempo e risorse, che però può determinare importanti benefici. In primo luogo, un approccio partecipativo ci consente di formulare domande di ricerca che siano davvero rilevanti per gli stakeholder. E, di conseguenza, i risultati saranno più soddisfacenti, sia per l’organizzazione sia per i diversi portatori di interesse coinvolti. Così come la dimensione partecipativa ha un effetto positivo sulle figure coinvolte nel processo, incrementando le conoscenze in ambito valutativo dei diversi stakeholder. In particolare, l’approccio partecipativo – e ancor più l’empowerment evaluation – crea all’interno dell’organizzazione che la pratica un ambiente aperto al pensiero critico e alla creatività, consentendo così l’identificazione di nuove soluzioni da implementare. Al di là delle considerazioni metodologiche, tanto amate e tanto odiate dalla litigiosa categoria dei valutatori, la dimensione partecipativa diviene un elemento imprescindibile nel processo di significazione della valutazione, perché ci consente di ritrovare la nostra missione, e soprattutto di ritrovarci nella nostra missione. Altrimenti, accontentiamoci di scoprire l’acqua calda.

Foto: Pexels

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