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Terzo settore, quel bivio fra crisi di talenti e bisogno di rinnovamento

Anche il direttore dei Programmi di Fondazione Soleterre interviene nel dibattito aperto da Felice Scalvini su come la filantropia innovativa possa sostenere il Non profit nella ricerca di capitale umano

di Tiziano Blasi

Diversi interventi autorevoli (Scalvini, Carazzone, Zandonai, Mento) hanno sottolineato come il Terzo Settore stia riscontrando una crescente difficoltà nel trovare e far crescere talenti. A questo aggiungo un aumento del burnout tra lo staff e una competizione crescente fra le organizzazioni. In alcuni settori, come quello umanitario, questa competizione non riguarda più solo l’efficacia degli interventi, ma anche la capacità di “fare rumore”, spingendo molte organizzazioni ad alzare i toni comunicativi.

Non si può negare che una delle cause sia una filantropia e delle istituzioni miopi nel sostenere lo sviluppo organizzativo di lungo periodo e che vi sia una crisi valoriale che porta molte organizzazioni ad essere più attente alla burocrazia e alla sostenibilità finanziaria che alla trasformazione della società. Tuttavia, sarebbe riduttivo fermarsi qui.

Le sfide

Innanzitutto, è cruciale riconoscere alcuni fattori sistemici. Tra questi, i salari italiani, già bassi in generale, sono ancor più ridotti nel settore non profit, rendendo difficile attrarre e mantenere talenti, in particolare nelle grandi città o nel caso di staff espatriato. Inoltre, la frammentazione della nostra economia – composta da migliaia di piccole e medie imprese e piccole e medie associazioni – limita la capacità di offrire forme di welfare integrativo, sicurezza sul lavoro e altre tutele economiche.

A questo scenario si aggiunge un calo di fiducia nel mondo della solidarietà. Di conseguenza, negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento dei controlli e della burocrazia sia da parte della filantropia che delle istituzioni che, insieme alla riduzione del numero di donatori, ha messo ancora più sotto pressione lo staff delle organizzazioni.

La crisi non riguarda tutti

È inoltre importante non semplificare. La crisi non riguarda tutte le organizzazioni del Terzo settore e non allo stesso modo.

Da un lato, le realtà più strutturate si stanno preparando per rispondere alle esigenze del proprio staff, rafforzando i dipartimenti di risorse umane, offrendo formazione, percorsi di coaching, sostegno psicologico, supporto al welfare familiare. Dall’altro, le piccole associazioni con istanze più politiche e trasformative non hanno problemi ad attrarre ragazzi e ragazze. Sembra che la forbice che divide le organizzazioni più grandi guidate da professionisti e le realtà comunitarie più radicali sostenute da attivisti stia aumentando. Sarà interessante vedere se la contrapposizione sarà anche generazionale e che direzione prenderanno le organizzazioni che si trovano a metà fra professionalizzazione e attivismo. 

Strategie di cambiamento

Certamente i donatori devono aumentare la propensione al rischio e adottare approcci diversificati. I bandi di supporto allo sviluppo organizzativo (es. Fondazione Cariplo o recentemente il Fondo per la Repubblica Digitale) sono buoni segnali, ma rimangono una goccia nel mare. Serve un cambio di paradigma verso i costi di struttura nei progetti: servono overhead al 20% e copertura dello staff gestionale, formazione e forme integrative di welfare incluse nei budget di progetto. È paradossale che alcune aziende possano permettersi di offrire un’integrazione al congedo parentale, mentre molte organizzazioni non profit che lavorano per i diritti dei bambini e delle donne non siano in grado.

Come ha detto MacKenzie Scott, la filantropia deve accettare che le associazioni hanno bisogno «di comprare delle sedie o reclutare nuovo staff o, semplicemente, smettere di lavorare il week-end e riposarsi».

Guardarsi dentro

Oltre al sostegno esterno, il Terzo settore deve mettere in discussione sé stesso: le reti associative potrebbero offrire soluzioni di welfare condiviso, specialmente per le organizzazioni di piccole e medie dimensioni; fusioni strategiche tra realtà affini potrebbero rafforzare la loro capacità d’azione e la resilienza, creando organizzazioni più forti e competitive; l’imprenditorialità sociale dovrebbe trovare uno spazio sempre più rilevante così da diversificare le fonti di finanziamento e garantire una maggiore sostenibilità.

Una domanda scomoda

Guardano ancora più affondo la questione, credo per motivare e attrarre persone intorno alla propria causa, sia necessario mettere in discussione la propria identità.

Sono stato molto colpito da un’intervista pubblicata dal Chronicles of Philanthropy, dove un giovane operatore di una associazione americana si chiedeva: «La gente è così ossessionata dal cercare sovvenzioni e denaro che finisce per sacrificare i bisogni della propria comunità pur di mantenere in vita l’organizzazione. Perché un’organizzazione non profit dovrebbe esistere per 80 anni? Se esiste così a lungo, forse non sta affrontando davvero il problema che si era prefissata di risolvere».

Questa domanda provocatoria non è solo un campanello d’allarme, ma un invito all’azione. Il Terzo settore italiano ha davanti a sé una scelta: evolversi o rischiare l’irrilevanza. È tempo di abbracciare il cambiamento, ripensare le nostre strutture e, forse, avere il coraggio di “uscire di scena”.

La foto in apertura ritrae giovani impegnati nel Servizio civile volontario – foto archivio Vita.it

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