Idee Comunicazione
Ted talks in vendita: e se diventasse un “bene comune”?
In vendita c’è un asset dove non è difficile scorgere un chiaro valore sociale. In termini formali perché i Ted talks sono governati da un'organizzazione non profit, ma soprattutto per i contenuti veicolati in quanto sostenibilità e impatto gareggiano alla pari con l’innovazione e tech
di Elena Casolari e Flaviano Zandonai
![](https://www.vita.it/wp-content/uploads/2025/02/TedxRovigo_da-youtube.jpg)
Ted talks – il famoso format di conferenze (e molto altro) – è in vendita. Lo ha annunciato qualche settimana fa il presidente Chris Anderson che nel 2000 acquisì i diritti di una conferenza su Technology, Entertainment e Design (da qui l’acronimo) per trasformarla in un ecosistema di narrazione con al centro “idee che vale la pena condividere”.
Ted talks, il format di public speaking pervasivo
La notizia merita un commento anche solo per l’effetto pervasivo dei Ted talks sull’immaginario collettivo dell’innovazione, grazie a un modello di business basato sulla disseminazione che ha consentito di scalare il format a livello locale (attraverso la formula dei Tedx) ma anche oltre.
Basti pensare a tutte quelle iniziative di conferenza e public speaking che si sono liberamente ispirate a questa iniziativa («è una specie di Ted» si sente spesso dire). Oltre a queste osservazioni generali ci sono però altre ragioni, più concrete, da prendere in considerazione.
Il valore sociale di un asset
In vendita c’è infatti un asset dove non è difficile scorgere un chiaro valore sociale. In termini formali perché i Ted talks sono governati da un’organizzazione non profit, ma soprattutto per i contenuti veicolati in quanto sostenibilità e impatto gareggiano alla pari con l’innovazione e tech. Inoltre, come appena ricordato, la gestione si basa su un approccio di coinvolgimento e di rete, tanto che oggi nei suoi database ci sono oltre 250mila speech che non superano, di solito, la famosa soglia dei 18 minuti.
Anderson – grazie anche al suo passato nel consulting – è naturalmente consapevole di queste peculiarità e quindi le veicola come potenzialità. Lo si nota soprattutto quando delinea il profilo del possibile acquirente individuando una gamma piuttosto variegata: si va da istituzioni universitarie e filantropiche a città che vogliono rinvigorire il loro profilo “smart” (e qualcuno ha già candidato Milano), fino a soluzioni più “estreme” come le Dao, organizzazioni collettive decentrate per la gestione e il governo delle risorse digitali (blockchain, AI, ecc.) ma che richiamano anche reti di Terzo settore e similari.
Un insieme di soggetti pubblici e privati che connota, soprattutto in questa fase storica, il contesto europeo nel quale la biodiversità istituzionale appare più evidente. Non è solo una questione di coerenza rispetto alle caratteristiche dei Ted talk, ma soprattutto di rafforzare la capacità di arginare la diffusione di modelli tecnocratici che si stanno affermando anche in importanti democrazie liberali come quella statunitense.
Quale ruolo per la finanza a impatto?
A fronte di queste caratteristiche – e di indicatori economico patrimoniali che appaiono solidi dopo un periodo di difficoltà coinciso, comprensibilmente, con la pandemia – viene da chiedersi a quali condizioni anche la finanza a impatto può dire la sua. I Ted talks sono un buon oggetto d’investimento per generare impatti? E se sì, a quali condizioni?
Un primo elemento di attrattività dell’operazione è legato all’integrità della missione che Anderson pone come vincolo. Un aspetto interessante che potrebbe “blindare” rispetto al rischio di mission drift con il passaggio di proprietà, ponendo quindi gli operatori finanziari impact in una ipotetica posizione di vantaggio rispetto a quelli speculativi.
Un secondo aspetto che invece andrebbe chiarito riguarda le effettive preferenze rispetto al nuovo assetto societario. Da una parte Anderson individua organizzazioni come fondazioni e istituzioni pubbliche piuttosto accentrate e consistenti in termini economici e finanziari, ma d’altro canto paventa una possibile “exit comunitaria” rappresentata da soggetti di rete rispetto ai quali il capitale necessario per l’acquisizione andrebbe ricalcolato sia nelle modalità di formazione (ad esempio prevedendo anche finanziamenti dal basso e/o apporti in kind) che di composizione della governance (ad esempio attraverso assetti multi stakeholder).
La narrazione dell’innovazione è ancora nei Ted talks?
Infine, ma certamente non per ultimo, valgono considerazioni di ordine culturale non estranee a questa ipotetica due diligence dei Ted talks come oggetto d’investimento a impatto.
La prima: siamo sicuri che siano ancora il luogo dove si forma e si diffonde la narrazione dell’innovazione in una fase di mutamenti radicali che interrogano non solo i contenuti delle innovazioni ma anche i modelli economici e gli orientamenti politico strategici degli attori che le elaborano e veicolano?
E una seconda: la logica di vendita è davvero quella più adatta per garantire la continuità e lo sviluppo di questa iniziativa o si potrebbe pensare a un “cambio di stato” ad esempio nella prospettiva dei beni comuni?
A rispondere dovrebbero essere non solo i possibili investitori ma una più ampia gamma di assetholder (dagli organizzatori locali agli speaker, fino ai pubblici delle conferenze) che grazie ai loro apporti hanno reso così appetibile i Ted talks.
In apertura un frame dal video YouTube del TedxRovigo
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.