Idee New media
Social media, ladri di attenzione
Se ne cibano avidamente. Per esistere, si prendono il bene più prezioso che consiste nella nostra resistenza a rimanere concentrati su qualcosa, che sia un articolo o la vista di un tramonto. La resistenza a non essere interrotti
Non è solo il tempo che ci hanno rubato (tempo esageratamente consumato con loro). Non è solo la capacità di stare in relazione con persone in carne e ossa (sabotata gravemente).
Ciò che i new media, i social media e tutti i mezzi di comunicazione invadenti hanno saccheggiato è la nostra Attenzione. Se ne cibano avidamente. Per esistere, si prendono il bene più prezioso che consiste nella nostra resistenza a rimanere concentrati su qualcosa, che sia un articolo o la vista di un tramonto. La resistenza a non essere interrotti.
Gli scienziati cognitivi ci hanno spiegato come reagisce il nostro cervello rispetto agli stimoli che giungono dal mondo esterno. Ebbene noi ci abituiamo a quello che ci scorre intorno in modo consueto. I nostri sensi si abituano a rumori, odori, visioni che popolano l’ambiente in cui ci muoviamo: ci abituiamo al rumore del treno, perfino a quello degli aerei, se abitiamo nei pressi di ferrovie o aeroporti; ci abituiamo alla vista di un certo filare di alberi sulla strada di casa che percorriamo tutti i giorni, al punto che quasi non lo vediamo più…Accade questo perché così il nostro cervello, non potendo impegnarsi su mille fronti insieme, né dovendo continuare a registrare ed elaborare dati, rumori, odori noti, può dedicarsi a mettere a fuoco altro. Può stare attento a ciò che è “nuovo”, appunto.
Un esempio: riusciamo a lavorare al pc in un open space rumoroso, a scrivere un documento, se ci abituiamo a quel sottofondo costante di disturbi e movimenti che ronzano. L’abituazione – che è la definizione di questo processo, cosa diversa dall’abitudine – è una sorta di arma di difesa della nostra mente, una forma di contrasto alla distrazione. Un paradosso sano.
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Certo l’abituazione ha dei risvolti negativi, come il dare per scontato – rubo le parole a Paolo Legrenzi, esperto della nostra psiche – tutto ciò che è illuminato, che riluce di vita propria, semplicemente perché l’abbiamo sempre visto splendere senza interruzione. Tanto che spesso ci accorgiamo o apprezziamo certe persone o cose solo quando ci sono sottratte.
Ma al netto di questo risvolto, l’abituazione è una forma di autotutela dalle invasioni esterne.
Vincono quegli account e piattaforme che riescono a trattenerci più a lungo – si parla di manciate di secondi, al massimo minuti – su una determinata landing page, su una pubblicità o un talk show
Sono invece proprio queste, interruzioni sistematiche, organizzate e strategiche, che mettono in atto i new media nei nostri confronti per guadagnare frammenti della nostra attenzione. La contano, la misurano al centimetro: vincono quegli account e piattaforme che riescono a trattenerci più a lungo – si parla di manciate di secondi, al massimo minuti – su una determinata landing page, su una pubblicità o un talk show. E per attirarla si inventano schemi (e algoritmi) sempre nuovi, in una generale corsa ad alzare i toni, esagerare nelle manifestazioni, nelle trovate urlate, nelle polemiche ovunque e a tutti i costi. Nell’intervista da talk show l’intervistatore non lascia neppure il tempo all’interlocutore di concludere la risposta, che attacca con una nuova domanda, perché l’ascoltatore non si “abitui”. Sale, sale l’asticella, ci cerca e ci pretende sempre di più, finché si produce alla fine una noia mortale.
Qui, nella crepa tra ricerca esasperata dell’attenzione e salvataggio nell’abituazione, si potrebbe innestare una modalità nuova di comunicazione per quelle realtà che ambiscono a contribuire al bene comune, una modalità che smetta di rincorrere i cacciatori di frammenti del nostro tempo, ma inventi un ritmo nuovo.
Thomas Friedman già nel 2006, e sembra un secolo fa, sul New York Times, non solo ha rintracciato uno dei mali contemporanei nella costante ubiqua-inter-connessione digitale, ma ha anche battezzato la nostra era “Età dell’Interruzione”. Ci sono soggetti in grado di usare quasi simultaneamente nella tratta Milano-Venezia, di 2 ore e 15 minuti in treno, due cellulari, un ipad, un ebook, un pc, evidentemente continuamente interrompendo un’attività per spostarsi compulsivamente su un’altra, per visionare, reagire, a questioni di lavoro, famiglia, sport, cultura. Solo che è brevissimo il passo tra iper-connessione digitale e dis-connessione personale, per esempio tra noi e chi cena a alla stessa tavola o viaggia sul sedile accanto in metro.
Ma questo non è l’angolo dei moralisti contro le derive del nostro tempo, che resta il più affascinante se non altro perché ne siamo gli aspiranti protagonisti.
Piuttosto lo spazio dove proporre un test: imparare a misurare quanto tempo riusciamo a stare concentrati su una sola attività (un dialogo con un amico? Una lettura?) prima di cedere all’incursione degli abitanti dell’Età dell’Interruzione. Noi ne siamo complici, oltre che vittime.
Già esserne più consapevoli potrebbe iniziare a tirarci fuori.
Foto di Ketut Subiyanto/Pexels
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