Idee Lavoro sociale
Sicurezza degli operatori, non cali il sipario
Foggia, Forlì, Tivoli... continuano a susseguirsi le aggressioni a operatori sanitari e sociali. Il Governo ha rafforzato le pene, ma occorre uno sforzo culturale. Da dove ripartire? Dalle riflessioni degli stessi operatori, qui raccolte in un mosaico multiprofessionale. Che dice anche che il lavoro sociale non è per tutti
La cronaca ci racconta sempre più spesso di aggressioni agli operatori sanitari e sociali, nelle strutture pubbliche come i pronto soccorso. Questi fatti hanno richiamato l’attenzione dei media e riaperto la riflessione pubblica su cause, conseguenze, azioni utili alla prevenzione. Il mondo professionale è sempre più scosso da questi fatti, che si susseguono anche là dove non arrivano alle cronache. Il Governo ha preso alcune iniziative: importanti sì, ma come spesso accade affrontano solo la punta dell’iceberg. Con l’articolo “Operatori sociali, perché dobbiamo tornare a coltivare l’autorità” pubblicato nell’agosto scorso su VITA, ho già cercato di affrontare alcuni temi, ma alcuni commenti ricevuti a quell’articolo, con uno sguardo multiprofessionale, mi spingono ora ad approfondire le questioni e rilanciano la necessità di uno studio più attento del fenomeno, senza questo passo ulteriore il rischio è che presto “cali il sipario”.
Cos’è cambiato nel Codice penale
Gli ultimi fatti di cronaca hanno riguardato aggressioni di operatori sanitari e danneggiamenti nelle strutture pubbliche. Una conseguenza di ciò è l’inasprimento delle pene previste dal Codice penale con arresto in flagranza di reato (e/o fino alle 48 ore dal fatto sulla base di documentazione video fotografica) e una multa fino a 10mila euro per danneggiamenti a “cose destinate al servizio sanitario o socio sanitario”. Questi sono i provvedimenti contenuti nel decreto legge 1 ottobre 2024, n.137. Il ministro della Salute, nel ricordare la procedibilità d’ufficio per tali reati e l’aumento della pena se il fatto è commesso da più persone, ha dichiarato inoltre che «occorre uno sforzo ancora maggiore sul piano culturale; continueremo a promuovere, insieme alle categorie, campagne per sensibilizzare i cittadini e rinsaldare il rapporto di fiducia tra paziente e medico».
Non solo medici
Innanzitutto è importante ricordare al ministro Schillaci e all’opinione pubblica che quando si parla di ambienti sanitari, ci si deve riferire a tutte le professioni che vi operano al suo interno: dagli infermieri ai tecnici sanitari, dagli educatori professionali agli assistenti sociali, dal personale della riabilitazione, della prevenzione e socio assistenziale ai medici. Pur comprendendo la necessaria sinteticità delle dichiarazioni, è necessario considerare tutte le 30 professioni coinvolte, popolate da circa un milione e mezzo di professionisti che operano in strutture pubbliche e private.
Qualcuno ha pensato alle operatrici e agli operatori che lavorano nei servizi sociali pubblici o nelle strutture dell’offerta accreditata o convenzionata con funzioni di utilità sociale?
Da una recente indagine condotta dalla Federazione Nazionale degli Ordini Tsrm e Pstrp (Rapporto ONSEPS), emerge che nel 2023 sono state 16mila le segnalazioni volontarie di aggressioni degli operatori sanitari in Italia. Il monitoraggio non si riferisce solamente agli episodi più eclatanti come le aggressioni fisiche, ma tiene in considerazione anche quelle verbali e contro la proprietà degli operatori. In un recente articolo la presidente della Federazione, Teresa Calandra, ha dichiarato tra l’altro che «secondo i dati Inail, la categoria degli educatori professionali, una delle professioni da noi rappresentate, è la terza più colpita da episodi di violenza. Questi professionisti lavorano in contesti complessi e delicati, come servizi educativi e riabilitativi di fragilità sanitaria e sociale: minori, tossicodipendenti, soggetti psichiatrici, etc».
Le richieste al ministro Schillaci
La presidente Calandra inoltre, in una nota al ministro Schillaci, ha segnalato alcuni punti per migliorare sicurezza e benessere degli operatori:
- l’applicazione seria e rigorosa delle “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni” (L. 113/2020);
- il plauso per le misure con il DL 1 ottobre 2024, n.137; il miglioramento delle misure di vigilanza e videosorveglianza delle strutture;
- azioni per il rilancio delle figure di operatore pubblico attraverso la sensibilizzazione della popolazione e campagne sui media;
- la formazione degli operatori sulla comunicazione ai cittadini e sulle tecniche di de escalation dei conflitti ed il ciclo dell’aggressività;
- la costituzione di team locali di esperti del mondo sanitario, sociale e delle forze dell’ordine per analizzare fatti ricorrenti;
- l’analisi dei dati regionali sull’applicazione delle linee di indirizzo per la prevenzione degli atti di violenza a danno degli operatori dei servizi sanitari e socio-sanitari e la disponibilità a collaborare per rivedere la Raccomandazione del Ministero della Salute n. 8 del 2007 “per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”.
Voci dal campo
Leggendo i commenti
Dicevo dei commenti e delle considerazioni che ho ricevuto dopo l’articolo di agosto. In alcuni casi si tratta di semplici “tweet”, in altri di riflessioni articolate e ordinate. Mi sono preso il tempo di rileggere e sistematizzare i contenuti raccolti. L’ultimo contributo ricevuto in ordine cronologico, quello di un ingegnere ed ex professore di scuola secondaria superiore, mi ha convinto che era venuto il momento di fare sintesi. Quello che emerge dai commenti è un quadro complessivo vario e interessante che ho provato a raccogliere per temi o per parole chiave.
Mi sono preso il tempo di rileggere e sistematizzare i contenuti raccolti. L’ultimo contributo ricevuto in ordine cronologico, quello di un ingegnere ed ex professore di scuola secondaria superiore, mi ha convinto che era venuto il momento di fare sintesi
Francesco Crisafulli
Attenzione al populismo
Lascio la parola a FL (ingegnere e professore di scuola superiore). «L’articolo di Crisafulli sulle violenze verso gli operatori sanitari mi ha stimolato alcune riflessioni sul tema del populismo e dell’aggressività. Può sembrare curioso voler associare una tendenza culturale oggi molto forte con aggressioni che hanno coinvolto personale della scuola e delle strutture sanitarie (quelle pubbliche che io sappia, chissà perché) ma un filo logico, secondo me esiste. Come è noto l’assunto di base del populismo è che il popolo “sa”, cioè è depositario del sapere, quindi di ogni verità conoscibile. È nota la considerazione del Savonarola per cui “una vecchia contadina analfabeta ha più conoscenze di Aristotele”. Corollario di questo assunto è la svalutazione di tutti i “saperi istituzionalizzati”, con particolare riferimento alla scienza che viene ormai considerata con fastidio, come una giustapposizione autoritaria rispetto alla genuinità del sapere popolare. Nascono da questo, opportunamente suggerite e sostenute da certa stampa in cerca di popolarità ad ogni costo e dai social, le ricerche di “verità alternative”, interpretazioni dei fatti nelle quali non importa l’aderenza alla realtà, ma la soddisfazione di chi le sostiene: preludio di un futuro dell’informazione nella quale le categorie del vero e del falso non contano quanto il numero dei “like” che riescono a raccogliere sui social. Nascono così i vari negazionismi, terrapiattismi, le scie chimiche, il Covid che non esiste, il vaccino che uccide… Viene in mente George Orwell che nel suo 1984 indica, fra gli slogan suggeriti/imposti dal Grande Fratello citava il seguente: “l’ignoranza è forza”. Il paradosso è solo apparente, in quanto, mentre il sapere genera una quantità di cautele, dubbi e considerazioni critiche che spesso frenano l’azione, il non sapere libera energie e azzera ogni freno critico. In un ambiente in cui ciò che si vorrebbe che fosse è più importante di ciò che è dimostrabile logicamente, di fronte alla tragedia del decesso di un parente a seguito di un incidente stradale, risulta più facile (ma anche gratificante e liberatorio) prendersela con gli operatori del pronto soccorso o della sala operatoria che non accettare la dura realtà della morte. Allo stesso modo è più facile, di fronte ad un bambino che a scuola non ottiene i risultati desiderati, incolpare gli insegnanti, i presidi e pure i bidelli piuttosto che affrontare i problemi e ricercare soluzioni».
CG (educatrice) ritiene che l’aumento di aggressività sia dovuta principalmente a fattori di scadimento dell’offerta di welfare nel nostro Paese. Questa condizione spinge all’individualismo e quindi al conflitto sociale. Il ragionare per slogan, la tendenza ad individuare il colpevole nella prima persona che ci capita davanti, le continue esperienze di frustrazione verso le proprie aspettative, sono elementi che scatenano i comportamenti di cui si parla nell’articolo. Chi gestisce i servizi reagisce tentando di evitare “grane” mettendosi in modalità “sopravvivenza”. Sarebbe utile tornare a parlare in forma collettiva dei malesseri della società, delle persone fragili e delle contraddizioni di questa società.
Aggressività e storytelling dei media
MC (educatore) propone di centrare l’attenzione, nella comunicazione pubblica, sui risultati raggiunti, sulla capacità di accoglienza e di ascolto, che sono fattori centrali delle professioni di aiuto e che devono chiaramente caratterizzare anche la loro “immagine pubblica”. Avere tempi adeguati per l’incontro col bisogno, riducendo o arginando per quanto possibile le comunicazioni indirette come mail, whatsapp, sms, lettere formali, può agevolare l’azione professionale.
FR (educatore e pedagogista) registra un incremento nella narrazione massmediologica dei crimini violenti a fronte di dati in decrescita, dettata principalmente da necessità di odience, come dimostra l’eccesso di particolari e di morbosità nella ricostruzione delle vicende. Tutto ciò, a volte, sembra costruito ad arte per influenzare la percezione del senso di sicurezza dei cittadini, dimenticando l’effetto di emulazione che questo modo di raccontare i fatti genera nelle persone fragili della società.
Le professioni sociali sui media tendenzialmente vengono proposte nella versione buonista di chi “aiuta il prossimo”. Poco o nulla viene presentato delle competenze e del ruolo che queste svolgono nella società
MC, educatrice
MC (educatrice e counselor) pone l’accento sulla rappresentazione distorta e parziale delle professioni sociali sui media, tendenzialmente propensi a proporle nella versione buonista di chi “aiuta il prossimo”. Poco o nulla viene presentato delle competenze e del ruolo che queste svolgono nella società. L’equazione «si conosce poco di voi, quindi avete poco valore, quindi se mi tocchi nelle questioni personali sono autorizzato a rompere i freni inibitori» non è lontana dalle situazioni a cui assistiamo tutti i giorni.
Approfondire, studiare e “imparare a disinnescare”
RP (sociologo) mette in guardia sul fatto che senza uno studio approfondito del fenomeno si rischia la sollevazione one shot. Sottolinea inoltre che è centrale il tema dei setting dell’incontro tra cittadini e operatori sociali e sanitari: i luoghi di cura, soprattutto quelli aperti alle emergenze, dovrebbero trasmettere un senso di regola e disciplina sull’ingaggio con il professionista.
MT (pedagogista) leggendo il titolo dell’articolo era rimasta colpita dal richiamo all’autorità; poi ha trovato un contenuto che le ha fatto cambiare idea. «Nell’articolo si legge che il reale significato della parola autorità è troppo spesso confuso con potere ed invece è da intendersi come bussola guida».
EB (assistente sociale) è convinta che per contrastare l’aggressività diffusa è utile confidare in un atteggiamento positivo e riconciliante del singolo soggetto, per favorire la “virata” verso capovolgimenti e ridimensionamenti verso punti di vista diversi. Parola d’ordine: imparare a disinnescare. Nel nostro lavoro e nei settori del disagio nei quali ci troviamo ad operare, sostiene la collega, «non dobbiamo mai smettere di capire, ascoltare, mostrare interesse verso l’altro e trasmettere il messaggio che uno spazio per affrontare e risolvere i problemi sia possibile». Le persone infatti molto spesso reiterano comportamenti e modalità apprese e questo riguarda anche atteggiamenti e comportamenti aggressivi e violenti e gli interventi punitivi/repressivi non fanno altro che rimandare i problemi al giorno dopo. Per essere convincenti dobbiamo rimanere sul terreno della competenza professionale, senza sconfinare in ambiti che non sappiamo trattare. Essere comprensibili comporta l’utilizzo di termini chiari, diretti in relazione alle capacità dell’interlocutore. Il fattore tempo è un elemento da considerare: quanto tempo abbiamo per ascoltare le persone che arrivano ai nostri servizi? Certamente non è possibile lavorare da soli: chiedere l’aiuto delle forze dell’ordine, quando è necessario, è un’opzione da considerare. Avvalersi invece delle competenze di altre professionalità del settore è un’opzione sempre da considerare, per uscire dall’isolamento e dalla autoreferenzialità.
Secondo AB (tecnico sanitario) dire che non si condivide un’azione violenta non è sufficiente, bisogna capire perché quell’azione è stata compiuta e quali sono state le cause (e le concause) che hanno portato la persona ad agire in quel modo. Al di là della condanna, senza capire non si risolve il problema. Chiede inoltre di non tralasciare il fenomeno degli agiti violenti dei curanti sulle persone assistite.
GM (educatrice) mette in evidenza il valore della continuità nelle relazioni come strumento per coltivare autorità e autorevolezza.
Recuperare autorevolezza del lavoro sociale
LR (amministratore pubblico) sottolinea l’importanza del recupero di autorevolezza del lavoro sociale. È importante ripensare, innovare, umanizzare le forme di presa in carico sociale. Un lavoro che richiede un’alleanza culturale, politica e operativa (anche di investimenti) che veda insieme politica, istituzioni, università, ordini professionali e professionisti.
Questo tema pone il problema del confine fra controllo e cura che attraversa molte delle nostre discussioni nei servizi. È veramente un tema complesso che affrontiamo solo quando accade l’incidente, ma questo non è un bene
LP, educatore
LP (educatore) ritiene che i nostri costumi negli ultimi 50 anni hanno visto il decadere delle posizioni di autorità in molti settori come la scuola, il sociale, la sanità, etc… in parallelo a una crescita “democratica” e ad un empowerment dei cittadini/utenti che si sono visti riconosciuti un potere decisionale e di espressione di diritti in questi settori. Evidentemente c’è l’aspetto negativo di una minor autorevolezza, spesso purtroppo accompagnata ad una effettiva ignoranza dei professionisti che prima veniva mascherata dall’autorità. «Penso ad esempio alla scuola, dove troviamo un numero alto di professori non preparati ad insegnare e ad avere una relazione educativa con gli studenti, ma anche ai settori socio sanitari, dove ci sono molti medici e infermieri incapaci di una relazione con i pazienti», afferma. Tutto questo si incontra con «l’ignoranza e l’aggressività dilagante da parte di tutti». Inserisce anche una riflessione «sul progressivo passaggio ad una gestione dei servizi sanitari (ma in parte anche sociali) di serie A e di serie B e nella divisione tra pubblico e privato pagante: le modalità relazionali dei due ambiti sono spesso molto diverse». Che fare? «Credo occorra un atteggiamento di consapevolezza dialogante da parte nostra e una sana formazione alla relazione». Poi ci sono i casi di aggressività patologica: «Qui si pone il problema del confine fra controllo e cura che attraversa molte delle nostre discussioni nei servizi, in particolare ai servizi dipendenze e salute mentale. Chiedere la presenza di personale di polizia o di sicurezza nelle sedi? Quali i pro e i contro? È veramente un tema complesso che alla fine affrontiamo solo quando accade l’incidente, ma questo non è un bene».
Il lavoro a fianco con persone fragili non è per tutti
FL (psichiatra). L’argomento è complicato e porta a volte su strade contraddittorie. Penso ad esempio da un lato all’introduzione di guardie e vigilanza nelle strutture, dall’altro ad essere “organizzazioni gentili”. Forse il lavoro a fianco delle persone fragili e vulnerabili non è per tutti: serve avere la struttura personale per riuscire a stare in contesti di vicinanza con situazioni difficili. Da qui i temi della motivazione, della formazione e della selezione del personale di cura. Segnala inoltre un tema di rapporti tra profili professionali e competenze, come parte del problema, ricordando che «al Maudsley di Londra stanno facendo una campagna comunicativa per restituire all’utenza l’umanità degli operatori e mi dicono che stia migliorando il clima dei servizi e riducendo gli episodi di aggressività».
Il lavoro a fianco delle persone fragili e vulnerabili non è per tutti: serve avere la struttura personale per riuscire a stare in contesti di vicinanza con situazioni difficili
FL, psichiatra
CS (educatrice). «Provo un senso di gratitudine quando una persona decide di fare una riflessione su temi così scomodi», esordisce, aggiungendo che «io sull’argomento ho più domande che risposte». Eccole. Come professionisti, quanto siamo capaci di collaborare? E come comunichiamo con le persone, con i colleghi, coi cittadini? Sappiamo ascoltare? Nessuno ha sempre ragione, neanche noi. Ascoltiamo davvero con onestà e apertura? Le parole sono un ponte: scegliamo parole per comprendere, farci capire, avvicinarci agli altri? Le parole hanno conseguenze. Sappiamo che ogni nostra parola può avere conseguenze, piccole o grandi?
Strumenti professionali e sguardi in prospettiva
GT (tecnico sanitario) mette in evidenza la “abitudine degli operatori” a non denunciare gli episodi violenti o a segnalare le micro aggressioni, le violenze verbali e psicologiche. Per certi versi si rischia di essere omertosi, per altri di rimanere schiacciati da una aggressività crescente.
EB (educatrice e pedagogista) sottolinea l’importanza dell’educazione come “agente di cambiamento” e la necessità per i professionisti di quest’area di non rinunciare a questa funzione nella società.
MB (educatrice) sottolinea l’ipocrisia delle istituzioni quando dichiarano che i servizi garantiscono la sicurezza per i propri operatori. Filtri in accesso nelle strutture, non respingenti ma che assicurino la registrazione delle persone; procedure per effettuare colloqui “a rischio”; protocolli di intervento delle forze dell’ordine possono essere d’aiuto per il fenomeno che stiamo esaminando. La formazione degli operatori sulle tecniche di de-escalation dell’aggressività, setting di debriefing che analizzano i fatti accaduti, la preparazione degli operatori senza azzardi o con professionisti allo sbaraglio, ma con una capacità di tenuta e coinvolgimento nelle relazioni di cura, sono strumenti a volte sottovalutati da parte delle organizzazioni.
La formazione degli operatori sulle tecniche di de-escalation dell’aggressività, setting di debriefing per analizzare i fatti accaduti, la preparazione degli operatori per dare loro una capacità di tenuta e coinvolgimento nelle relazioni di cura, sono strumenti sottovalutati dalle organizzazioni
MB, educatrice
DB (educatore) racconta che nei servizi “a porte chiuse” del suo territorio, «c’è uno scadimento delle competenze relazionali ed un disinvestimento nella formazione dei professionisti a gestire situazioni di aggressività e soprattutto a prevenirle; c’è anche un numero di operatori insufficienti; tutto questo genera frustrazione negli operatori e rabbia e aggressività nei pazienti in cura».
AN (educatrice e pedagogista) evidenzia come con il Pnrr in ambito sociale sia partito un programma massiccio di supervisione ai servizi, cosa che in passato non c’era. «Ai tre punti che segnali nell’articolo che sono alla base dell’immagine del servizio sociale (il ruolo dei media, le esperienze dirette delle persone con gli operatori, il contesto storico e culturale, i cambiamenti sociali, politici ed economici) aggiungerei un quarto punto, che è come gli operatori sociali descrivono e narrano i propri servizi; come si raccontano i singoli e come lo fanno come gruppo di lavoro; questo punto va poi incrociato con la descrizione che le istituzioni fanno dei propri servizi. Mi chiedo spesso quanto gli elementi della discriminazione e della slatentizzazione di certi comportamenti nella società, della separazione da un senso di collettività, possano riguardare anche gli stessi operatori. Mettere in evidenza questi elementi che facciamo fatica a guardare, potrebbe essere una forma di tabù che va affrontata perché la società che osserviamo è fatta anche dalle nostre singole visioni». E aggiunge: «Infine ritengo che i temi della giustizia sociale siano usciti dalle nostre agende di riflessione. Siamo passati dall’assistenzialismo al tentativo di governo del sistema, ma abbiamo bisogno oggi di trovare una via sostenibile dell’essere comunità e di un impegno condiviso».
I temi della giustizia sociale sono usciti dalle nostre agende di riflessione. Siamo passati dall’assistenzialismo al tentativo di governo del sistema, ma abbiamo bisogno oggi di trovare una via sostenibile dell’essere comunità e di un impegno condiviso
AN, pedagogista
Conclusioni
La sintesi della raccolta delle voci dal campo racconta di sguardi personali ed analisi professionali, di aspetti organizzativi e di policy istituzionali. Coinvolge le professioni, i servizi, gli enti e i cittadini. Richiama il valore delle relazioni umane, del dialogo e della fiducia negli operatori dei servizi pubblici (ampiamente intesi). Sottolinea l’importanza di fuggire dai populismi, dai giudizi sommari, dalle approssimazioni, dalle pretese e dalla de-responsabilizzazione dei singoli cittadini.
Chiama in causa i professionisti e li interroga sulle possibili forme di violenza o prevaricazione nei confronti delle persone utenti e sulle mancate collaborazioni con le altre professionalità e servizi.
L’invito per tutti è di non abbassare la guardia perché la posta in gioco è alta: c’è in ballo la tenuta complessiva di un sistema collettivo di società.
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