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Se non coinvolge industria e PA, alla transizione ecologia rimane solo la burocrazia

L'Italia si presenta con una nuova energia propulsiva che gioca anche sul piano internazionale. Si tratta allora di dimostrare con i fatti la propria capacità di incidere mettendo l’innovazione sociale al centro della transizione attraverso nuovi strumenti finanziari e tecnologici

di Filippo Addarii

Torna lo spettro del dottor  Stranamore. Questa volta non è un sinistro statista, maestro della deterrenza atomica, ma uno scienziato del clima assorto in modelli predittivi che calcolano l’aumento delle temperature e gli impatti causati dalle conseguenti catastrofi naturali. 

La paura della deflagrazione atomica ha terrorizzato il mondo per mezzo secolo ma, a suo modo, ha contribuito a mantenere la pace tra le super potenze e promosso il progresso sociale. Oggi l’emergenza climatica ne ha preso il posto e la transizione ecologica lanciata dall’Unione Europea segna la sola via d’uscita. Le temperature di queste settimane lo hanno reso incontrovertibile. L’impatto del cambiamento climatico è un’esperienza tangibile, non più un evento proiettato in un qualche futuro remoto. Rischiamo tutti di finire arrosto. 

Serve una mobilitazione collettiva di tutte le forze economiche e sociali. Invece la classe dirigente esita, cercando  scorciatoie e imputando alle politiche europee la responsabilità dei costi della transizione, piuttosto che assumersi la leadership del cambiamento. Prima di tutto dovrebbe mettere la quinta nella decarbonizzazione dell’economia. Poi dovrebbe lanciare una nuova politica industriale che valorizzi il potenziale della transizione a favore dello sviluppo economico e sociale. 

Serve una mobilitazione collettiva di tutte le forze economiche e sociali. Invece la classe dirigente esita, cercando  scorciatoie e imputando alle politiche europee la responsabilità dei costi della transizione, piuttosto che assumersi la leadership del cambiamento

Filippo Addarii

Questo è il problema. Come convincere tutti quanti della necessità di un cambiamento radicale quando possiamo offrirgli soltanto dei costi nel breve periodo, mentre i guadagni finiscono tutti nelle tasche della solita elite: finanza internazionale e multinazionali? Questo non è l’incipit di una teoria complottista, ma il problema oggettivo per tutte le democrazie e non basta una campagna mediatica per risolverlo. 

Non abbiamo, tuttavia, ragione per disperare. Siamo di fronte a una rivoluzione copernicana. Il dilemma di ogni società moderna è sempre stato quello di trovare un equilibrio tra promozione della crescita economica e tutela della coesione sociale e dell’ambiente. Negli ultimi anni, il dilemma ha trovato una  soluzione ideale. A partire dagli Accordi di Parigi (2015), a cui hanno fatto seguito con cambiamento di strategia dei grandi investitori, con Blackrock in prima fila, lo European Green Deal e il Piano europeo per la ripresa e la resilienza, la sostenibilità è assurta a nuovo motore di innovazione e crescita. La cosiddetta Green Growth (crescita verde). 

Decarbonizzazione, elettrificazione, energie rinnovabili, economia circolare, rigenerazione urbana, finanza sostenibile e clean tech rappresentano i nuovi trend della crescita sostenibile. Gli Stati Uniti lo hanno dimostrato con i fatti; anzi, i dollari. Per quanto il Paese sia lacerato dai conflitti domestici, l’amministrazione Biden, con l’Inflation Reduction Act (2022), ha stanziato un programma per accelerare la crescita verde e l’attrazione d’investimenti sovvenzionare l’industria con 500 miliardi di dollari in sgravi fiscali. Ci sono somiglianze con il famigerato super-bonus italiano. La differenza invece è che i contribuenti investono in nuovi settori industriali base per la crescita nel futuro, e che la manovra prevede di generare un taglio di 237 miliardi di spesa pubblica nei 10 anni successivi. Non si potrebbe chiedere di meglio! 

L’Italia invece che fa? Il dibattito sul salario minimo che appassiona il Parlamento tradisce un’immaturità della classe dirigente ancora prigionieria della nostalgia per le semplici ricette del passato. Soluzioni inadeguate per Paesi in cima alla piramide dei consumi di Maslow, e tinte di quella ingenuità democratica che ancora si culla nell’illusione che un mandato popolare corroborato da riferimenti puntuali alla Costituzione, attribuisca un potere pressoché di natura miracolosa per legiferare su crescita e giustizia sociale. Anni di quantitative easing e innalzamento dell’indebitamento pubblico hanno chiaramente messo alla prova il già tenue rigore economico e corroborato i miti propagati da Mazzuccato e adepti. Keynes ci aveva avvertito del pericolo delle cattive idee economiche. La dura realtà è che un governo può tassare e indebitarsi ma se le risorse raccolte non sono investite per creare fondamenta solide e durature per la crescita economica ingaggiando gli stakeholder economici e sociali competenti e rispettando i parametri della sostenibilità, alla lunga si va tutti in rovina, anzi, arrosto

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Tre sono considerazioni di merito determinanti nei prossimi mesi. 

Innanzitutto serve una revisione della visione rispetto alla declinazione del modello di crescita sostenibile perché non la si può limitare agli aspetti climatici e ambientali. L’euforia legislativa europea di questi ultimi 4 anni ha insistito sulla transizione ecologica accompagnata a quella digitale, spesso scorporata da quella economica e tralasciando la dimensione sociale. In realtà, il cambiamento di paradigma nasce con le prime politiche europee che avrebbero voluto riequilibrare dimensione economica e sociale: Social Innovation (2010) e Social Business Initiative (2011). Quelle iniziative visionarie e coraggiose al tempo, purtroppo, furono sacrificate per rispondere a interessi corporativi e ridotte all’ennesima proclamazione di diritti (The European Pillar of Social Rights 2017). La transizione richiede una visione comprensiva, integrata e pragmatica. 

Secondo, l’attuazione delle attuali politiche è deludente e riduttiva. La sostenibilità è stata ridotta a un un gigantesco e costoso esercizio di contabilità aziendale e compliance regolamentare che riempirà i forzieri di una nuova burocrazia verde nelle cui fila troviamo i soliti contabili, consulenti, arlecchini e balanzoni. Invece si è perso  il potenziale trasformativo della transizione che rimette in gioco la creazione del valore (e dei valori) e si traduce nei nuovi mercati e nuovi modelli di business. Sicuramente responsabile è l’Unione Europea che predilige l’azione normativa a discapito dell’azione pragmatica e la sperimentazione. Ma non meno responsabili sono governi, associazioni di categoria e stakeholder per aver mancato in spirito d’iniziativa e lobby efficace. 

Il potenziale trasformativo della transizione che rimette in gioco la creazione del valore (e dei valori) e si traduce nei nuovi mercati e nuovi modelli di business

Filippo Addarii

Infine, serve unaltrettanto drammatico cambio di paradigma per l’amministrazione pubblica con la riscoperta di una cultura dell’innovazione aperta all’apporto di tutti gli attori economici e sociali. I lettori più attenti (e vecchi) dovrebbero ricordare il programma del governo britannico nel 2010 con Big Society e le sperimentazioni con i Social Impact Bond che applicavano lo stesso approccio degli Stati Uniti nel coinvolgere investimenti privati, imprenditorialità privata per finanziare l’innovazione, migliorare il servzio per i cittadini e ridurre la spesa pubblica. Il lavoro di questi ultimi 4 anni in Italia, invece, mi ha fatto toccare con mano una realtà desolante in cui opera la pubblica amministrazione. 

Oggi l’Italia si presenta con una nuova energia propulsiva che gioca anche sul piano internazionale. Si tratta allora di dimostrare con i fatti la propria capacità di incidere diventando l’esempio di una transizione ecologica che coinvolge tanto la trasformazione dell’industria quanto quella dell’amministrazione pubblica, e che rimette l’innovazione sociale al centro della transizione valorizzando i nuovi strumenti finanziari e tecnologici. L’Italia così potrebbe risolvere il dilemma e ritrovare la propria strada. 

Foto: archivio VITA

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