Idee Dopo lo sciopero generale
Rendite sempre più ricche, lavoro sempre più povero: come cambiare direzione
L’impoverimento dei dipendenti è associato all’arricchimento di chi ha rendite. L’allargamento della forbice della ricchezza è esito della maggiore remuneratività del capitale sul lavoro. Promuovere il lavoro significa anche combattere le diseguaglianze, per una società più giusta. Non farlo, significa mobilitare nei lavoratori un profondo risentimento, dare ragione alla rabbia, sobillare la protesta
Lo sciopero del 29 novembre 2024 è alle spalle. I punti del conflitto sembrano riguardare la manovra di bilancio, ma a ben guardare la ragione che motiva il malcontento è molto più profonda e rimane sullo sfondo. In un contesto in cui il tasso di occupazione aumenta e aumentano i contratti stabili, il punto di partenza riguarda i salari, compromessi dall’inflazione: i dipendenti hanno visto perdere il proprio potere d’acquisto senza potere correre ai ripari. I lavoratori sono più poveri e a nessuno importa, com’è possibile? C’è un salto di percezione tra chi lavora e chi decide sul lavoro. I lavoratori sono ben consapevoli del contributo positivo di ognuno di loro al benessere collettivo, mentre chi legifera o filosofeggia sul lavoro sembra non coglierne il senso. È in fin dei conti un problema di riconoscimento.
In una società che ha pervicacemente estirpato la reciprocità, l’abnegazione e la cura dal proprio elenco dei valori e delle virtù, innalzando la ricerca del profitto personale a unico mantra per il benessere proprio e della comunità, anche la definizione di «pieno sviluppo della persona umana», inteso quale obiettivo della Repubblica dalla nostra Costituzione, perde di significato. È innegabile che la proposta di Amartya Sen, per il quale ogni progetto politico e di azione sociale deve essere orientato alla capacitazione, ossia «la capacità di ciascuno di fare le cose alle quali assegna con ragione un valore», sia ancora attuale e potente. Eppure se quelle “cose” sono limitate al proprio interesse e se il perimetro nel quale si muove la ricerca di ognuno non comprende la pluralità e la convivenza, allora forse è legittimo anche interrogarsi se quella capacitazione è sufficiente a dare un senso all’agire politico e sociale e a porsi come obiettivo della Repubblica.
L’adozione del principio dell’egoismo come primario rispetto alla reciprocità e alla relazione ha impatto anche sul concetto di lavoro, anzi conviene sostenere che ha soprattutto impatto sul lavoro
L’adozione del principio dell’egoismo come primario rispetto alla reciprocità e alla relazione ha impatto anche sul concetto di lavoro, anzi conviene sostenere che ha soprattutto impatto sul lavoro. Il lavoro egoista guarda a se stessi: massimizzazione della remunerazione e riduzione dello sforzo, oppure anche strumento per la gratificazione personale e il successo, infine ricerca dell’ammirazione per il proprio talento e per la propria specificità individuale. Ecco i comportamenti opportunistici, i free riders, ma anche il proliferare di bullshit jobs, occupazioni che hanno qualsiasi ragione d’essere tranne quella di essere utile a qualcosa. Se è questo l’orizzonte in cui si muovono le rivendicazioni dei lavoratori, allora hanno già perso. Ci sarà sempre un egoista più potente, con maggiore capacità negoziale.
Eppure non sembra questa la rivendicazione alla base di tutte le rivendicazioni, quanto proprio invece il riconoscimento della centralità del lavoro per il benessere di tutti, dal momento che lavorare è darsi da fare per essere utili, per connettersi agli altri in una prospettiva di servizio. Se il lavoro autentico e di senso è essere utili, al consorzio umano o al pianeta, ecco che diventa “il lavoro”, ancora più che la capacitazione, il fine di ogni progetto politico e sociale, come “momento della vita dove esperire il senso di essere con gli altri e nel mondo”.
Mettere finalmente il lavoro al centro dell’agenda politica significa promuoverlo, non operare per contrarne i confini o per renderlo superfluo (operazioni che lo umiliano più che difenderlo). Promuovere il lavoro significa promuovere la reciprocità, la relazione, ma anche la responsabilità verso gli altri, verso il pianeta e verso il futuro. In questo programma c’è anche un giudizio di merito e di valore. Chi lavora merita il plauso della società perché si impegna per gli altri, contribuisce ad accrescere la ricchezza comune, anche attraverso il prelievo fiscale e attraverso la cura delle persone non autosufficienti. C’è anche un impegno in favore della dignità e della qualità del lavoro. I lavori inutili, senza senso, non sono lavoro. C’è infine la valorizzazione del lavoro non retribuito e degno di riconoscimento, come la riproduzione, in tutte le sue forme, la genitorialità, l’educazione, la cura, l’accompagnamento nella mansione, il mentoring, la partecipazione alla costruzione di regole comuni.
Come dimostra Antony B. Atkinson (“Disuguaglianza: cosa si può fare?”, 2015) la contrazione della quota media della retribuzione sul reddito complessivo (rispetto a rendite da capitale e trasferimenti) in un Paese è correlata ad un aumento della disuguaglianza. Sembra paradossale, ma è molto vicino alla nostra esperienza comune, perché significa che chi più si prodiga per gli altri è anche più povero. L’impoverimento dei dipendenti è associato all’arricchimento di chi ha rendite. L’allargamento della forbice della ricchezza è esito della maggiore remuneratività del capitale sul lavoro. Promuovere il lavoro significa anche combattere le diseguaglianze, per una società più giusta. Non farlo, significa mobilitare nei lavoratori un profondo risentimento, dare ragione alla rabbia, sobillare la protesta.
Ma perché allora sembra che nessuno difenda il lavoro? Perché la schiacciante vittoria dell’egoismo come valore ha prodotto un blocco sociale ben saldo, tra chi può contare su rendite da capitale e chi auspica di potere vivere di trasferimenti (e la retorica sul reddito incondizionato universale ne è un esempio). In mezzo, una parte forse non marginale dei lavoratori aspira ad essere assorbita in uno di quei blocchi: chi ad accantonare sufficiente ricchezza per consolidare le rendite, chi a cospicui trasferimenti non associati ad alcun impegno per gli altri. Se il lavoro è denigrato e umiliato, allora bisogna disfarsene. Dipendere dal lavoro è da perdenti o sciocchi.
Ecco allora che la pubblicazione di “Working”, di Terkel Studs, forse è un segnale di un cambio di tendenza. Il libro raccoglie testimonianze sulla bellezza del lavorare, sulla gratificazione che nasce non dall’essere ammirati, ma dall’essere utili agli altri. Se anche i benestanti intellettuali si accorgono che nel lavoro c’è il positivo contributo al bene comune, che il lavoro non è il problema, ma è la soluzione, allora possiamo aggregare su questi valori nuovo consenso.
Per vedere un nuovo blocco sociale, forse dovremmo cambiare la narrazione.
Foto La Presse: sciopero generale del 29 novembre, manifestazione a Bologna
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