Idee Quale idea di nazione?
Referendum sulla cittadinanza: 500mila firme contro il tribalismo della politica
«Mi chiedo quale sia la connessione fra il concetto di cittadinanza globale e quello di nazionalismo, quale sia l’idea “etnica” di cittadino». L'analisi dell'antropologa Paola Berbeglia
In queste giornate – nelle quali 500mila persone in pochi giorni spingono l’Italia ad indire un referendum per dimezzare i tempi per acquisire la cittadinanza italiana da parte dei migranti – persone che, come me, cercano di seguire da vicino nuove tendenze tra l’etica, la politica educativa e la pratica quotidiana sentono risuonare le parole di Kant: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».
Perché questo richiamo? L’occasione mi è data da due novità recenti: l’iniziativa “Figlie e figli d’Italia”, ovvero la raccolta firme per portare a 5 anni di residenza legale in Italia il periodo necessario per chiedere la cittadinanza ed estenderla ai figli e la comunicazione sulle Nuove Linee Guida del Ministero dell’Istruzione e del Merito per l’insegnamento dell’educazione civica (ed il parere negativo, non vincolante, offerto dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione).
La connessione fra i due eventi è data proprio dal termine “cittadinanza”, oggi tema molto dibattuto, anche perché fortemente connesso con i termini “democrazia” e “nazione”, “democrazia” e “patria”, termini usati dal capo del governo Giorgia Meloni, assegnataria in questi giorni, del Global Citizen Award con la presentazione di Elon Mask.
Da antropologa mi chiedo quale sia la connessione fra il concetto di cittadinanza globale e quello di nazionalismo, quale sia l’idea “etnica” di cittadino. Secondo gli etnologi, Howard Giles ad esempio, una presunta omogeneità del popolo si distingue per tre elementi: un comune antenato e dunque avere lo stesso sangue; una terra comune, legata ad una stessa lingua di appartenenza; alcuni tratti esterni somatici e o comportamentali, che permettono agli altri, gli esterni, di percepire la differenza estetica immediata.
Ho provato ad applicare gli stessi criteri all’italianità/nazionalità come carattere etnico. Quale potrebbe essere l’antenato italiano che riconosciamo come patriarca? Noi italiani siamo stati attraversati da diversi tipi di culture, dominazioni, economie. Dove possiamo ritrovare l’unitarietà genetica?
Passiamo allora alla terra comune e alla lingua condivisa. Qui, mentre l’ufficialità della lingua italiana comune è indiscussa, mi domando quanto le lingue veicolari contrassegnino o ostacolino il concetto di cittadinanza. Cosa dire del fatto che francese, inglese, spagnolo, sono state e sono tutt’ora utilizzate in varie nazioni come lingua di studio unificatrice in territori dall’origine etnica eterogenea? Lingue utili a più Paesi e persone a scopo comunicativo, ma non identitario? E le 60 tradizioni alloglotte che ricordava a suo tempo Tullio De Mauro in Italia? Non sono patrimonio dei cittadini italiani? L’italianità non è composta anche dai dialetti o dalle lingue regionali?
Trovo ancor più difficile delimitare strettamente la terra comune: la storia ha cambiato e cambia continuamente i confini territoriali. Valgono inoltre forse meno cittadini, i residenti all’estero?
Passiamo infine ai tratti somatici: qual è il tratto somatico italico: capelli chiari, scuri, castani? Occhi chiari, scuri? Altezza media, media fra quali estremi? Un popolo così mescolato come quello italiano, come delimita questi tratti?
Allora come educatrice alla cittadinanza globale, autorizzata dall’obiettivo 4.7 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, inizio a interrogarmi sui valori portanti delle Nuove linee sull’educazione civica.
Nessun problema rispetto alla «centralità della persona umana, soggetto fondamentale della Storia, al cui servizio si pone lo Stato. Da qui nascono la valorizzazione dei talenti di ogni studente e la cultura del rispetto verso ogni essere umano. Da qui i valori costituzionali di solidarietà e libertà e il concetto stesso di democrazia che la nostra Costituzione collega, non casualmente, alla sovranità popolare e che, per essere autentica, presuppone lo Stato di diritto. Da questo deriva anche la funzionalità della società allo sviluppo di ogni individuo (e non viceversa) e il primato dell’essere umano su ogni concezione ideologica».
Le difficoltà sorgono invece rispetto al passaggio in cui: «Si promuove la formazione alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia. Di conseguenza, viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione. Attorno al rafforzamento del senso di appartenenza a una comunità nazionale, che ha nei valori costituzionali il suo riferimento, si intende anche favorire l’integrazione degli studenti stranieri».
L’Italia non è parte di una comunità internazionale? La tanto richiamata sostenibilità economica, com’è attuabile senza una prospettiva globale? Lo sviluppo delle politiche internazionali dell’Italia, vedasi Piano Mattei, come si collocano? E poi l’integrazione degli alunni stranieri allora su quali basi dovrebbe avvenire senza dare spazio allo ius soli? Li vogliamo cittadini con senso di appartenenza o no? È necessario questo senso di appartenenza alla vita quotidiana? A chi giova? Risolve forse i problemi di fuga dei cervelli? Di mancanza di lavoro dignitoso?
Un interessante pubblicazione Unesco (Educazione alla Cittadinanza Globale e Ascesa dei Nazionalismi – Unesco 2018 ) di qualche anno fa si soffermava sul concetto di “nazionalismo esclusivista” e sulle difficoltà che innescava o i rischi da cui veniva innescato: è basato sull’idea retorica del noi versus loro (e non voi) , ma loro chi? si tratta di un indistinto ideologico, un aggregato informe, proprio quel che si dice di voler combattere.
Si menziona poi la necessità di osservare «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. L’importanza di sviluppare anche una cultura dei doveri rende necessario insegnare il rispetto per le regole che sono alla base di una società ordinata, al fine di favorire la convivenza civile, per far prevalere il diritto e non l’arbitrio».
Che cos’è una società ordinata? E una disordinata? La democrazia com’è? Si dice che una società deve essere basata sul rispetto degli individui, che sono per definizione unici. Qual è il limite dell’ordine? La facile gestibilità o la regola condivisa? E se non si è cittadini la regola vale?
Mi viene da ricordare che l’ultimo rapporto sull’Indice di Sviluppo umano di qualche mese fa (Breaking the Gridlock 2024) parla di una società in stallo, imbrigliata e bloccata dalla disuguaglianza, che potrà “muoversi” solo di fronte al maturare di un senso dei “beni comuni”. Qui non ne trovo traccia e mi trovo invece a domandarmi: come poter sostenere la pianificazione previdenziale in epoca di precariato totale, incertezza economica aggravata dalle crisi belliche e mancanza di umanità che stanno avvenendo?
Mi mancano tante parole che vorrei vedere scritte, ad esempio il diritto alla pace, alla cittadinanza globale ma cinicamente mi viene da chiedermi, come facevano gli antichi romani, a chi giova? E provo a trovare alcune risposte logiche:
Non certo all’economia italiana, che non può sopravvivere autarchicamente in epoca di globalizzazione tanto che deve spingersi verso l’internazionalizzazione e gli accordi con l’Africa e ha bisogno di immigrati per mantenere in piedi il sistema pensionistico. Non certo ai ragazzi, che reclamano collettivamente, globalmente un’idea di sostenibilità economica, sociale e ambientale.
Ma allora forse conviene solo a chi, delimitando il concetto di cittadinanza ed etnicizzandolo, come se le società fossero ferme al livello di tribù, riesce in questo modo ad immaginare di poter esercitare un potere politico, controllando le differenze e nascondendolo sotto falso ordine, fallendo però su qualunque futuro possibile condiviso.
Foto: il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, entrambi vicepremier
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