Idee Parole, parole, parole
Raccontare & mentire: la lezione di Marc Twain (e la scivolata di Giambruno)
La selezione della parola giusta è un lavoro, ma quanti pasticci e inutili code polemiche può evitare? Basti ricordare solo un caso-studio televisivo recente: dire "flussi migratori" al posto di "transumanza" ci avrebbe risparmiato molto chiacchiericcio sterile
Come raccontare una storia e l’arte di mentire: l’accostamento tra queste due arti, quella del racconto e della menzogna, viene dal genio Marc Twain (nell’immagine, ndr.) e da un piccolo libro di oltre un secolo fa, che raccoglie brevi saggi sulla scrittura, quindi sulla vita, e conserva tutto il suo brio.
Mentire e raccontare vanno a braccetto, perché per questo Twain particolarmente arguto, mentire è un’arte delicata, amorevole, una disciplina da coltivare e di cui come genere umano abbiamo bisogno: “Una persona che dica sempre la verità è semplicemente una creatura impossibile; non esiste e non è mai esistita”, scrive, aggiungendo che sarebbe altrimenti impossibile la convivenza umana. Mentire per lui è un elegante costrutto edificato da cima a fondo grazie a forme leggiadre e ricercate della menzogna, intesa e voluta come caritatevole e disinteressata.
Agli antipodi di questa eleganza si intravede la posizione tronfia di quei tipi che, con tono arrogante, dichiarano ad alta voce: “Io dico sempre la verità. Io dico sempre quello che penso”. Mentre invece forse un tale slancio veritatista non giova, anzi: non sempre la verbalizzazione di quello che uno “pensa veramente” concorre al bene comune, quanto a volte invece un buon silenzio (che per Twain è parente di un mite mentire).
“Ovviamente esistono persone che sono convinte di non mentire mai, ma la realtà è un’altra e la loro ignoranza getta discredito sulla nostra civiltà”, chiosa il nostro autore, che oggi, a cento anni di distanza con la sua attualità ci viene in soccorso: l’arte di mentire per lui è sinonimo di gentilezza. Quella che cura ferite, che aggiusta relazioni tempestose, scioglie tensioni, evita l’escalation di ossessioni di cui i social media sono intossicati. Il suo non è un invito a costruire sistemi fondati su falsità interessate che mirano a obiettivi strategici, ma al contrario un incoraggiamento a trattare con cura la verità. A maneggiarla come un cristallo prezioso, a dirla sì, ma come si deve. Su questo non demorde. Infatti a proposito di come si devono dire le cose, come va raccontata una storia perché funzioni, perché l’interlocutore o lettore o ascoltatore non si perda per strada, ma resti attaccato fino alla fine, Twain imbastisce un decalogo di 22 regole base intuitive e, nella loro essenzialità, efficaci.
La n. 1, per esempio, recita: “La storia segua un disegno preciso, e approdi da qualche parte”. Ecco come va trattata la verità, alla larga quelle storie senza direzione, che non hanno un traguardo a cui condurre. Spiazzante la regola n. 3: “I personaggi della storia siano vivi”. Ma come, non è dato per scontato? No, Twain alza l’asticella: per piacere la storia chiede personaggi che siano il deposito di un dinamismo vitale, di drammaticità autentica (per rubare una parola agli autori del teatro greco).
Meravigliosa la regola n. 9: “I personaggi si limitino a fare cose materialmente possibili lasciando perdere miracoli, o se si avventurano nel campo dei miracoli, facciano in modo che siano convincenti”. Non ci prendete in giro, chiede l’autore del decalogo a chi si cimenta in un racconto, non siamo dei fessi, siate credibili o vi molliamo.
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Ma la preferita assoluta è la legge n. 13: “Utilizza la parola giusta e non sua cugina di secondo grado”.
Quasi è un oracolo questa regola. Sarebbe perfetta per il frontone del tempio di Delfi, ma anche per lo stipite delle porte dei nostri luoghi di lavoro o delle nostre istituzioni o delle televisioni e simili. Certo la selezione della parola giusta è un lavoro, richiede una certa concentrazione, ma quanti pasticci e inutili code polemiche può evitare e soprattutto quanto spazio può lasciare alla verità nel nostro modo di comunicare e di dirci, in qualsiasi ambito. Basti ricordare solo un caso-studio televisivo recente: dire “flussi migratori” al posto di “transumanza” (Giambruno dixit, ndr.) ci avrebbe risparmiato molto chiacchiericcio sterile.
Nel frattempo le cugine di secondo grado, le parola imprecise e fuori zona, potremmo lasciarle riposare un po’.
Foto di Jackie Ramirez da Pixabay
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