Idee Lavoro sociale

Quale people strategy per gli enti del Terzo settore?

L'open innovation manager del consorzio Cgm reagisce all'intervento di Felice Scalvini: «Servizio civile, formazione e innovazione: è lungo questi tre assi che gli enti sociali si giocano la partita per attrarre lavoratori»

di Flaviano Zandonai

Il contributo di Felice Scalvini sul ruolo della filantropia per rigenerare le basi culturali, motivazionali e di aspirazione che sottostanno a una rinnovata people strategy del Terzo settore delinea una prospettiva interessante, anche per quanto riguarda il lavoro retribuito oltre che per il volontariato. Può risultare particolarmente efficace se in pendant con approcci e soluzioni di natura più strettamente applicativa che si collocano nell’alveo del HR management. Ri-alimentare i contesti dove si allenano disposizioni a operare in senso imprenditivo nel campo sociale richiede infatti di adottare una prospettiva lunga (temporalmente) e larga (a livello di approccio) che può consentire a quella più stretta e corta della gestione del personale, dell’adeguamento contrattuale, del welfare integrativo e di altri dispositivi simili di incrementare la propria efficacia. Ma anche l’opposto, nel senso che l’agire su un piano culturale può trovare nelle pratiche di gestione un antidoto per non scadere nella retorica, ormai esausta, dei principi identitari.


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Come tenere assieme queste due prospettive facendole convergere in una vera e propria strategia per le persone? Tutto ciò sapendo non solo che il tempo stringe ma che questa operazione non può essere “subappaltata” a qualche soggetto di supporto per quanto animato, come nel caso della filantropia, dalle migliori intenzioni. Detto in altri termini non potrà che trattarsi di un’operazione interna, che sta al cuore dell’elaborazione strategica e della missione di imprese sociali e altri enti di Terzo settore sui quali impatta la “grande trasformazione” del loro mercato del lavoro.

Le proposte formulate di seguito sono accomunate dalla necessità di un’auto sovversione al limite del paradosso. Si tratta infatti di attenuare, almeno in parte, quella spinta professionalizzante e “strumentalizzante” che ha caratterizzato in modo sempre più evidente alcuni classici percorsi di avvicinamento e primo inserimento nel settore sociale, recuperando così una dimensione esperienziale ed educante che può fare da bacino di significati per percorsi lavorativi capaci di alimentare e di gestire le sfide del nostro tempo.

Il servizio civile, da questo punto vista, rappresenta un primo esempio emblematico. Basta considerarlo come una specie di tirocinio neanche troppo mascherato. Torni a essere un contesto di sperimentazione fatto di prove, errori e apprendimenti e non di immediata messa-in-produzione (magari in senso sostitutivo).

Anche la formazione, a iniziare da quella manageriale, provi a “deporre le armi” della tecnicalità e della strumentazione (o almeno la interroghi in chiave critica) per insistere su un fare non solo applicativo ma anche riflessivo (e meglio se in comune). Ripensi inoltre, similmente al servizio civile, project work e tirocini in un’ottica conoscitiva e di definizione di aspettative reciproche tra persona e organizzazione e non come un mero periodo di prova.

Infine anche l’innovazione può fare la sua parte. Se vuole essere davvero aperta lo faccia non solo rispetto a bisogni specifici da risolvere attraverso progetti mirati, ma nei confronti di desideri e aspirazioni che vengono anche (e soprattutto) da margini e divergenze. Una buona organizzazione e, in questo caso, un’adeguata cassetta degli attrezzi potrà garantire il necessario ritorno sull’investimento.

Non sono percorsi facili naturalmente. Ma forse rappresentano un modo per accelerare la rigenerazione delle fonti di quella cultura organizzativa e societaria su cui si fonda l’essere terzo, cioè alternativo e trasformativo, di questo settore.

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