Idee Dopo la copertina di VITA magazine

“Provare a fare senza”? Senza Terzo settore non si perdono solo servizi: si perdono relazioni

«L'assenza del Terzo settore non si traduce solo in una carenza operativa, ma nel venir meno di quell’effetto coesivo che si sviluppa indipendentemente dalla realizzazione di un’attività specifica. Il valore del Terzo settore risiede anche nel suo esserci, come parte integrante di un ecosistema relazionale». L'intervento della vicepresidente e dell'open innovation manager di Cgm (Consorzio Gino Mattarelli)

di Francesca Gennai e Flaviano Zandonai

Il nuovo numero di VITA magazine ci invita a riflettere ancora una volta su come misuriamo il valore del Terzo settore. Per decenni – e in gran parte ancora oggi – abbiamo adottato un approccio basato sulla “massa critica” delle istituzioni che ne fanno parte: il loro numero, le caratteristiche, la distribuzione sul territorio e nei diversi ambiti di attività. Un metodo che, pur con i suoi limiti, è stato consolidato dal censimento Istat sulle istituzioni nonprofit e, più recentemente, dal Runts, il Registro unico nazionale del Terzo settore, frutto di un complesso iter seguito alla riforma del settore.

Accanto a questo approccio tradizionale, emergono nuove esperienze che propongono metriche diverse per valutare il valore del Terzo settore, adottando parametri legati all’economia e al benessere. Tra questi, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 e il Bes (Benessere Equo e Sostenibile), quest’ultimo ancora una volta misurato dall’Istat. Questi strumenti offrono una prospettiva più ampia, capace di cogliere non solo la dimensione quantitativa, ma anche l’impatto sociale e il contributo delle organizzazioni nonprofit al progresso collettivo. Si tratta di tentativi di cambiare le metriche rispetto a quelle dominanti, come il Pil, che non tengono conto di determinanti sociali e ambientali, anzi li trattano come risorse da “estrarre” per alimentare catene del valore che massimizzano l’interesse economico di pochi agenti egoisti. 

L’evento di presentazione del numero di VITA magazine di marzo, mercoledì 19 presso ToolBox Coworking in via Montefeltro 2 a Torino

Nella stessa direzione vanno i recenti dati del Welfare Italia Index 2024, che confermano il ruolo centrale del Terzo settore nel migliorare la qualità della vita delle persone e delle comunità, oltre che nel contribuire allo sviluppo economico del Paese. Una capacità che, come sottolinea Maurizio Carta, urbanista e assessore del Comune di Palermo, nasce anche da un approccio orientato al fare con. In altre parole, il Terzo settore si radica e si consolida laddove può collaborare con altri attori, pubblici o privati, presenti sul territorio. Approccio va detto, che genera squilibri territoriali tra aree dove le partnership sono possibili (Centro Nord) e dove invece sono più difficoltose da architettare (Sud). In questo contesto, provare – come suggerisce VITA, a “fare senza” potrebbe rappresentare un ulteriore criterio per misurare il valore del Terzo settore. Un esercizio di sottrazione che, come osserva Paolo Venturi, direttore di Aiccon, mette in evidenza il vuoto lasciato dall’assenza del Terzo settore, rivelandone così il valore essenziale per la tenuta del contratto sociale, soprattutto a livello locale e comunitario. Questo approccio si inserisce pienamente nell’era della valutazione dell’impatto, in cui si misurano gli effetti positivi e duraturi generati da investimenti intenzionali, capaci di introdurre elementi di innovazione piuttosto che di replicare l’esistente. I valutatori si pongono una domanda chiave: «cosa accadrebbe se questo progetto, questa politica o questa organizzazione non esistessero?» Una prospettiva illumina l’importanza del Terzo settore e ne evidenzia anche il contributo insostituibile alla coesione sociale e allo sviluppo del Paese.

Un approccio forse un po’ troppo “hard” rischia, però, di trascurare alcuni elementi di valore fondamentali, a partire dai partenariati e, più in generale, dai contesti in cui gli enti del Terzo settore operano. Non è affatto scontato che il potente effetto rete generato dai soggetti sociali possa essere tradotto in metriche precise, rischiando così di restituire una rappresentazione sì significativa, ma inevitabilmente semplificata degli impatti reali.

In questa prospettiva, il Terzo settore si rivela essenziale non solo per le attività e i servizi che eroga, ma anche per il tessuto di relazioni e connessioni che genera. La sua assenza, dunque, non si traduce solo in una carenza operativa, ma nel venir meno di quell’effetto coesivo che si sviluppa indipendentemente dalla realizzazione di un’attività specifica. Il valore del Terzo settore risiede anche nel suo esserci, come parte integrante di un ecosistema relazionale. Proprio questo aspetto rischia di sfuggire a un modello valutativo basato sulla sottrazione, riducendo una parte essenziale del senso stesso di esistere – il purpose – del Terzo settore. Un limite che potrebbe riflettersi anche sulla capacità di coinvolgere e mobilitare persone e risorse: per generare impegno e partecipazione, infatti, non basta la consapevolezza dell’assenza. Servono visioni trasformative, capaci di alimentarsi attraverso una narrativa comune, in grado di ispirare e dare forma al cambiamento.

A fronte di tutti questi sforzi di misurare il valore viene però da chiedersi perché le organizzazioni del terzo pilastro della società continuino a essere relegate in una posizione subordinata rispetto alle istituzioni pubbliche e al mercato

A fronte di tutti questi sforzi di misurare il valore viene però da chiedersi perché le organizzazioni del terzo pilastro della società continuino a essere relegate in una posizione subordinata rispetto alle istituzioni pubbliche e al mercato. Questo – purtroppo – è il vero impatto di queste analisi. Perché sono riconosciute solo quando altre istituzioni pubbliche e di mercato falliscono o non si mostrano interessate a rispondere a determinati bisogni? Domande in apparenza retoriche, ma cogenti visto il conto che questo stato di marginalizzazione del Terzo settore presenta nei termini di: difficoltà economiche; carenze operative; crescente difficoltà nel coinvolgere nuove generazioni; capacità d’innovazione limitata su interventi incrementali anziché trasformativi. Non solo. Nei contesti ad alta collaborazione tra pubblico e privato si può assistere a una sorta di “esproprio” delle competenze e delle capacità delle organizzazioni della società civile, senza un adeguato riconoscimento né economico né culturale. Andando a correre il rischio che il contributo straordinario di questi enti venga sfruttato e non siano messi nelle condizioni di garantire un impatto positivo per la vita delle persone e della comunità.

Che fare quindi? La risposta spetta in primis alle stesse organizzazioni non profit, che hanno la responsabilità di rafforzare le proprie capacità operative e strategiche, non limitandosi alla mera compliance normativa (come quella imposta dalla ancora incompiuta riforma del Terzo settore), ma impegnandosi a trasformare l’esistente e a rispondere con efficacia alle sfide sociali e ambientali sempre più urgenti. Tutto questo riprendendo il controllo su programmi e azioni di capacity building che troppo spesso sono stati delegati a soggetti finanziatori esterni e alla loro longa manus consulenziale. Ma una (grande) parte di risposta è però in capo allo Stato e al mercato a cui tocca riconoscere che il loro tradizionale duopolio sulla società è ormai superato. È tempo di trasferire, in modo definitivo e non più solo occasionale, risorse strategiche – infrastrutture materiali e tecnologiche, modelli di servizio, percorsi formativi, fondi economici e finanziari – sotto la governance del Terzo settore, non per “gentile concessione” ma perché ha contribuito a co-generarle. È necessario superare una interpretazione del principio di sussidiarietà che si attiva esclusivamente al bisogno.

Guardando al futuro, il Terzo settore si configura così non solo come un correttivo alle carenze del sistema di welfare tradizionale, ma come il motore di una trasformazione profonda del nostro modello sociale. Solo in questo modo si potrà invertire il progressivo sgretolamento della coesione sociale e della capacità inclusiva delle comunità locali, un fenomeno che sta minando l’efficacia dell’azione politica ed economica, anche in termini di legittimazione, come stiamo vedendo in questa fase di crisi dei modelli liberal democratici che il Terzo settore – Tocqueville insegna – ha contribuito a fondare.

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