Idee Relazioni
Perché il potere responsabile è l’unica forma di potere ammissibile
Il potere che salva è il potere legato alla verità e al farsi carico delle conseguenze del proprio operare, dobbiamo ricordarcene quando promuoviamo il potere come capacitazione
“Il problema dei tre corpi”, il bestseller di Liu Cixin, da cui è stato tratta una recente serie Netflix di successo, ci affascina perché siamo continuamente immersi in questioni che non hanno soluzione. Il problema dell’uguaglianza, associato al problema della giustizia, è uno di questi. Per René Girard se cade il rito del sacrificio, che scarica la violenza su vittime innocenti, allora l’ordine si regge solo su una differenza tra le persone, su una struttura di potere legittimata da religione, istituzioni e leggi che determina il dominatore e il dominato. Oggi è venuto meno il ruolo riconosciuto del sacrificio e affermiamo il principio di uguaglianza: per Girard è paradossalmente il perfetto innesco per il disordine e il regno della violenza.
A ben guardare la riflessione è solo apparentemente astratta: viviamo in un nodo di dilemmi morali, per i quali non è possibile scegliere sulla base di regole consolidate. Agiamo in sistemi complessi, nei quali ognuno di noi appartiene a gruppi solidali al loro interno ma in conflitto tra loro. Possiamo avere tutte le buone intenzioni del mondo, ma arriva il punto in cui dobbiamo scegliere se rispondere (e come farlo) alle aspettative che altri nutrono nei nostri confronti, nel lavoro, o nella famiglia o nelle comunità. A volte nella stessa azienda ci sono lealtà contrastanti. Aggiungiamo il gruppo amicale, l’appartenenza politica, il tifo sportivo. Per lo più ne facciamo questione di priorità: che la famiglia sia più importante della squadra del cuore sembra un assunto banale, anche se non è condiviso da tutti. A volte però, molto più spesso di quanto potremmo supporre, non c’è alcuna regola certa. Il complesso delle conseguenze delle nostre azioni sulla vita dei clienti o degli utenti, dei colleghi, dei nostri partner o dei nostri figli è talmente tanto ingarbugliato che ci risulta difficilissimo decidere. Se la comunità si organizza per strutture rigide che determinano a priori le lealtà a cui siamo tenuti è tutto più facile, ma quando affermiamo, con la nostra sensibilità contemporanea, che tutti sono uguali, fino a sostenere, nel punto più alto della nostra civiltà, che ogni membro dell’umanità è ugualmente degno della nostra lealtà allora le cose si complicano. Oggi aggiungiamo che la lealtà alla specie e la lealtà alla biosfera sembrano problematiche.
La riflessione getta nuova luce su un concetto su cui si sono arrovellati i filosofi della politica, i teorici delle organizzazioni, infine gli economisti: il potere. Per tutti coloro che si occupano di aiutare gli altri, tale concetto ha un significato positivo e anzi la relazione di aiuto è un supporto ad aumentare il potere, cioè la capacità di raggiungere i propri obiettivi. Non si tratta solo di contribuire a rimuovere gli ostacoli per una “piena realizzazione del sé”, ma proprio di ridiscutere di cosa parliamo quando parliamo di “realizzazione”. Si tratta di aprire gli spazi della possibilità: dare potere significa accompagnare le persone a scoprire nuove opportunità che non avevano prima nel loro orizzonte di senso. Con gli opportuni “sostegni”, una nuova possibilità si aggiunge alla nostra vita. Abbiamo approfondito l’applicazione di questo approccio alle persone con disabilità, aprendo lo spazio a ripensare la propria vita nel lavoro, nello sport, nell’abitare, nella sessualità, nelle relazioni affettive. Ugualmente lo abbiamo fatto con le persone fragili e vulnerabili o provenienti da situazioni sociali di marginalità o povertà. Ci siamo anche resi conto che non era sufficiente.
La capacitazione incontra un limite nelle resistenze delle comunità a coinvolgere le persone nella partecipazione e nella costruzione delle regole comuni. La persona con diversità può lavorare, certo. Magari le si riconosce un importante contributo al gruppo di lavoro, però non è il caso che sia proprio lei a definire le regole, a modificare i processi. Sul lavoro la costruzione dal basso delle regole comuni non è (ancora) prassi comune. Vediamo analoghe dinamiche con la partecipazione politica, come dimostrano le opposizioni alla concessione della cittadinanza. Ampliare il potere è una battaglia ammirevole per coinvolgere tutti nella definizione delle regole, per assegnare potere a chi non ce l’ha per permettere a tutti di partecipare alla costruzione del sistema comune di convivenza.
Eppure il potere ha una pessima nomea. “Potere” è troppo spesso associato alla capacità di condizionare, se non determinare, il comportamento degli altri e sembra pacifico che l’obiettivo sia di perseguire il proprio interesse, arbitrario e discrezionale. Tant’è che quando il potere è orientato al benessere collettivo è spesso associato ad aggettivi, che sembrano necessari per curvarne il significato: “illuminato”, “benevolo”, “giusto”. La ricerca del potere sembra essere dunque una tensione propriamente umana per affermare il proprio benessere personale a discapito degli altri, un significato ben diverso a quello che noi comunemente utilizziamo nelle relazioni di aiuto. Ma le cose stanno davvero così? Possibile la parola faccia riferimento a due concetti talmente irriducibili e così lontani?
La riflessione di Girard sulla crisi sacrificale (la fine del valore religioso e istituzionale del sacrificio della vittima innocente) e sul ruolo delle differenze (la struttura sociale che determina le priorità nel sistema delle lealtà) ci può dire qualcosa di utile. In una cultura dove si vorrebbero annullate le differenze si apre la possibilità, sì, ma del conflitto, perché tutte le lealtà sono ugualmente rilevanti. Dove tutte le lealtà sono equivalenti allora tradire la lealtà o i principi della reciprocità e della collaborazione è una eventualità praticamente certa. Cosa accade quando qualcuno tradisce il principio di lealtà, di collaborazione o di solidarietà al gruppo? Da una parte ci può essere attrazione per quegli sciacalli che capiscono che chi non rispetta le convenzioni ha un vantaggio schiacciante nei confronti degli altri; per tutti gli altri c’è l’indignazione e il senso di ingiustizia. Quando tale senso di ingiustizia si percepisce impotente, allora si scatena la rabbia. La rabbia è l’anticamera della violenza, del caos sul quale ci mette in guardia Girard. E dunque perché siamo così attratti e al contempo così disgustati dal potere?
Perché il potere mette al riparo dal rischio di rappresaglie.
Il potere che corrompe dunque è la capacità di condizionare o determinare il comportamento degli altri, sì, ma al fine di mettersi al riparo dalle rappresaglie, di rendere impossibile la vendetta dopo un’ingiustizia, dopo il tradimento dei principi di lealtà e di solidarietà al gruppo. La struttura gerarchica, più è rigida e immutabile più rende evidente il sistema di priorità perché chi sta in alto è intoccabile: su chi detiene il potere non è possibile la rappresaglia. Sembra un intrico difficile da sciogliere, un “problema dei tre corpi” senza soluzione. Eppure c’è una strada, propriamente umana, che passa dalla trasparenza, dal mettere in luce le diverse lealtà riferite a gruppi o a persone diverse, e dalla responsabilità, cioè dal caricarsi del peso delle scelte difficili. Ecco allora che una lente interpretativa promettente sembra proprio associare il potere che corrompe, come strategia per scongiurare le rappresaglie, al rifiuto della trasparenza e all’assenza di presa di responsabilità. Vi ricorda qualcosa? Occultamento della verità, rifiuto delle responsabilità, negazione degli effetti negativi delle proprie decisioni: sono i principi immutabili dell’autoritarismo. Ma allora il potere che salva è il potere legato alla verità e al farsi carico delle conseguenze del proprio operare, dobbiamo ricordarcene quando promuoviamo il potere come capacitazione. Dobbiamo anche qui associare un aggettivo per specificarne la natura: la sola forma di potere ammissibile è il potere responsabile.
Foto: Pexels
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