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Fra purpose e compliance

Organizzazioni: il braccio di ferro fra immanenza e trascendenza

Riconoscere l’immanenza delle organizzazioni non è un esercizio di “realismo” applicato alle organizzazioni del capitalismo. Può essere il primo passo per riprenderne il controllo, radicando queste entità percepite e costruite come trascendenti nei dati di realtà rappresentati dai contesti primari di relazione e di vita in comune

di Flaviano Zandonai

Come riconosciamo il carattere immanente delle organizzazioni? Come si materializza la presenza di enti che sempre più trascendono i dati di natura, compresa la specie umana che li genera e li riproduce? Un interrogativo rilevante e urgente in una fase in cui molte organizzazioni sia pubbliche che private tendono ad essere più opache e inaccessibili, non solo perché sono costruite e gestite in tal senso ma anche perché sono sempre più articolate e complesse e quindi distanti dai loro “abitanti” e dai contesti in cui sono insediate. Eppure, nonostante o forse per effetto di questi limiti del loro sviluppo, alle organizzazioni viene affidata una quota sempre più rilevante di una tecnica che determina in modo altrettanto evidente quei fattori umani e ambientali da cui esse scaturiscono e che le alimentano.

L’immanenza organizzativa è in primo luogo definita dalla loro presenza nello spazio materiale. Le organizzazioni, anche quelle che amano evidenziare il loro carattere intangibile, hanno una “soma” sia per poter funzionare sia per auto rappresentarsi. Sedi direzionali, stabilimenti produttivi, magazzini di logistica sono forse la modalità più immediata, ma non per questo irrilevante, per dirci che le organizzazioni sono tra noi e agiscono come world makers, plasmando cioè la realtà come un artificio, frutto di combinazioni inedite e su scala sempre più ampia di elementi diversi utilizzati come “risorse”.

In secondo luogo l’immanenza organizzativa si riscontra nelle regolazioni normative. Seppur veicolate come dati generali e astratti, forme giuridiche, contratti, patti parasociali, ecc. sono in realtà dispositivi sempre più contingenti e tagliati su misura per diverse tipologie di soggetti, ambiti di attività, contesti territoriali di appartenenza, ecc. Tutto ciò che è “legal” e “compliance” assume quindi una rilevanza crescente che influenza, fino a fagocitarle, le principali componenti organizzative, ad iniziare dagli assetti di governance. E, ancora una volta, si tratta di un processo pervasivo da cui non sfuggono neanche le organizzazioni di piccole dimensioni e caratterizzate da una maggiore flessibilità proprio nei confronti della “gabbia d’acciaio” giuridica.

C’è però un ulteriore aspetto rilevante che contribuisce a materializzare le organizzazioni e cioè il tempo, rispetto al quale si possono riconoscere almeno tre forme d’uso che, inevitabilmente, lo qualificano come una risorsa.

  • La prima modalità è quella classica, da mansionario potremmo dire, del tempo lavoro, qui inteso come regolazione della performance organizzativa in tutte le sue componenti, umana compresa. È il tempo della catena di montaggio taylorista tutt’altro che passato di moda e anzi trasferito con successo in ambiti diversi dalla produzione manifatturiera dove per primo è stato misurato, come i “minutaggi” delle prestazioni di welfare. Per di più il tempo lavoro è stato ulteriormente efficientato da tecnologie digitali sempre più chirurgiche grazie alla loro capacità di datificare il reale e soprattutto sempre più ubique, cioè incorporate nelle cose e, ancora una volta, nelle persone.
  • Il secondo è il tempo della conoscenza, in particolare di quella più preziosa cioè tacita e non codificata. Tutto ciò che sfugge al tempo meccanico precedente può essere catturato attraverso assetti organizzativi improntati su autonomia, creatività, collaborazione e che una nuova generazione di tecnologie all’incrocio tra project management e social network sono in grado di potenziare spesso in senso estrattivo attraverso l’empowerment e l’abilitazione. Anche in questo caso si tratta di uno sviluppo organizzativo di medio periodo ma che si trova ad affrontare nuove sfide. La principale consiste nell’interazione con applicativi di intelligenza artificiale generativa, grazie alla capacità di istruzione (prompting) e di raffinamento (fine tuning) da parte di intelligenze collettive riconosciute come agenti organizzativi (le ben conosciute comunità di pratica)
  • Il terzo è il tempo della conciliazione che viene misurato attraverso strategie di responsabilità sociale rivolte soprattutto al principale stakeholder interno, cioè i collaboratori, grazie a strategie e dispositivi di welfare aziendale. Quello che a prima vista può apparire come un mero supporto integrativo, soprattutto in una fase di cui lavoratori e lavoratrici cercano anche senso oltre a retribuzione economica e crescita delle competenze, può rappresentare in realtà un tentativo da parte delle organizzazioni, soprattutto di quelle di natura imprenditoriale e lucrativa, di colonizzare luoghi e tempi di vita tradizionalmente “liberati” dal lavoro e dall’appartenenza rispetto a una qualche entità diversa da quella delle reti primarie familiari e comunitarie. Un approccio “totalista” che si giustifica con la progressiva destrutturazione dei legami di socialità (rispetto ai quali le organizzazioni sono tutt’altro che innocenti), insieme al fatto che questi stessi legami rappresentano l’ultima miniera, prima degli innesti tecnologici nei sistemi biopsichici, per attingere non solo a conoscenze e capacità, ma soprattutto a passioni, aspirazioni e desideri in una fase di deficit motivazionale rispetto all’agire e all’identificarsi in un’organizzazione.

Riconoscere l’immanenza delle organizzazioni non è un esercizio di “realismo” applicato alle organizzazioni del capitalismo. Può essere il primo passo per riprenderne il controllo, radicando queste entità percepite e costruite come trascendenti nei dati di realtà rappresentati dai contesti primari di relazione e di vita in comune. Ciò implica di modificare una rappresentazione profondamente radicata nelle culture organizzative, negli impianti normativi, nelle pratiche manageriali e, non da ultimo nel senso comune. Il principale bersaglio di questo ribaltamento di prospettiva riguarda quella dimensione di scopo – il cosiddetto “purpose” – delle organizzazioni, declamato nelle dichiarazioni di missione e negli statuti, strutturato nei piani strategici, veicolato nelle academy aziendali, ecc. Come afferma la filosofa Elettra Stimilli è ora di superare l’approccio teleologico, occidentale e maschile, che riconosce il senso in finalità trascendenti, e di riconoscerlo invece in tutti quei mezzi, ad iniziare dai corpi delle persone, che sono tutt’altro che strumenti ancillari ma soggettività dove si formano e riproducono significati e direzioni dell’agire. Una ricerca, anzi la Ricerca, che ci caratterizza come esseri umani ma che forse non può più essere portata avanti attraverso le modalità che abbiamo fin qui utilizzato e su cui abbiamo fondato la nostra civiltà.

Foto: Pexels


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